venerdì 16 giugno 2017

Milano

Il Milano (da www.forum.milanotrasporti.org)

Piroscafo mezzo salone ad elica, in servizio su Lago Maggiore. Lungo 43,30 metri e largo 5,80, con pescaggio 1,26 m e velocità 25,44 km/h. Dislocava 144 tonnellate e poteva trasportare 500 passeggeri, oltre ai 7 uomini di equipaggio.
Aveva due gemelli, Torino e Genova.

Breve e parziale cronologia.

12 agosto 1912
Completato dalla Ditta Bacigalupo di Genova Sampierdarena, entra in servizio per la Società Anonima Innocente Mangilli – Impresa di Navigazione sul Lago Maggiore. Collaudato al comando del capitano Cipriano Besana, è il primo dei tre piroscafi della sua serie ad essere ultimato.

Il Milano ad Intra (da www.forum.milanotrasporti.org)

Luglio 1917
In seguito al fallimento della ditta Mangilli passa, insieme al resto della flotta, in regime di requisizione e gestione provvisoria alle Ferrovie dello Stato, sino al 1923.

La nave a Locarno (da www.forum.milanotrasporti.org)

1923
Passa, con il resto della flotta, in gestione temporanea al Ministero dei Lavori Pubblici.

(da www.lavenomombelloedintorni.it)

1924
Come il resto della flotta, passa alla Società Subalpina Imprese Ferroviarie, che ha rilevato il servizio di navigazione sul Verbano. Ne viene valutata la possibilità di trasformazione (insieme a Torino e Genova) in motonave ad elica, che non viene però attuata.
 
Il Milano fotografato probabilmente in partenza.

L’affondamento

Anche dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, il Milano e gli altri battelli del Verbano proseguirono regolarmente il loro servizio di collegamento tra le opposte sponde del lago. Per più di quattro anni, mentre il destino dell’Italia in guerra si compiva, i battelli del Lago Maggiore continuarono nel loro monotono viavai tra le opposte sponde del lago; compatibilmente, s’intende, con la situazione di un Paese in guerra, con i suoi problemi e le sue ristrettezze.
Ma la guerra guerreggiata sembrava restare lontana dal Verbano; anche dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando calò sull’Italia la grigia cappa dell’occupazione tedesca, il Milano ed i suoi “colleghi” continuarono infaticabilmente a collegare i paesi e le cittadine che si specchiavano nelle acque del lago.
Ma il servizio dei battelli del Lago Maggiore doveva conoscere il suo periodo più nero proprio un anno dopo l’arrivo dei tedeschi.
L’autunno del 1944 vide infatti l’ingresso, su tutto il Nord Italia, di un nuovo flagello portato dalla guerra: innumerevoli aerei Alleati – bombardieri leggeri e cacciabombardieri – che volavano in “caccia libera”. Fino a quel momento erano state sottoposte a pesanti bombardamenti quasi esclusivamente le città di medie e grandi dimensioni, che ospitassero obiettivi d’importanza strategica (industrie impegnate nello sforzo bellico, aeroporti, snodi ferroviari): se queste incursioni causavano allarmi e notti insonni anche nei abitati minori che sorvolavano per raggiungere i loro obiettivi, non avevano però (quasi) mai provocato danni di rilievo.
Ora cambiava tutto: mentre le città continuavano ad essere l’obiettivo dei bombardieri medi e strategici, l’offensiva aerea angloamericana puntava adesso a paralizzare in ogni modo i collegamenti e gli spostamenti delle truppe tedesche (e repubblichine) nell’Italia occupata, iniziando a colpire indiscriminatamente ogni mezzo di trasporto che potesse essere utilizzato dalla Wehrmacht. Sulla Pianura Padana sfrecciavano i cacciabombardieri che gli abitanti presero presto a chiamare "Pippo", sempre in volo, isolati o in coppia, a portare lo scompiglio e, spesso, la morte: la loro preda non aveva un nome o una natura ben definita. I loro bersagli erano "targets of opportunity", obiettivi occasionali: loro scopo primario, come detto, era rintracciare e distruggere qualsiasi mezzo che i tedeschi potessero usare per i loro spostamenti. Ricadevano in questa categoria autocarri, automobili, corriere, convogli ferroviari, ed imbarcazioni di ogni tipo, compresi i battelli lacuali.
Difficilmente i piloti avevano modo di distinguere un mezzo in uso da parte delle forze tedesche (che potevano requisire ed impiegare anche mezzi civili) da uno impegnato nel trasporto di innocui civili: la possibilità di provocare vittime tra questi ultimi era accettata dai comandi Alleati, un inevitabile danno collaterale. In qualche caso, poi, si è forse autorizzati a pensare – a posteriori – che qualche pilota possa aver avuto un atteggiamento deliberatamente criminale.
In ogni caso, le pianure dell’Italia settentrionale non tardarono ad essere insanguinate da attacchi che spesso si tradussero in stragi di civili: a volte anche decine, sfollati e pendolari falciati mentre si spostavano in treno o in autobus. Oppure in battello.
Su ognuno dei quattro grandi laghi prealpini si dovettero lamentare battelli affondati e vittime tra i passeggeri e gli equipaggi: ad inaugurare la triste serie fu proprio il Verbano, il 25 settembre 1944.
Quel giorno, infatti, il Genova, gemello del Milano, fu attaccato e mitragliato da alcuni cacciabombardieri durante la navigazione da Pallanza a Baveno. Incendiato dai colpi, il piroscafo affondò poco al largo di Baveno, con la morte di 34 persone.
Poche ore dopo fu la volta del Torino: venne sorpreso anch’esso dai cacciabombardieri e mitragliato mentre era ormeggiato a Luino. Questa volta non ci furono vittime, ma la nave fu affondata.
 
Passeggeri scendono dal Milano (foto probabilmente scattata in tempo di pace).

In seguito all’affondamento dei due piroscafi, la direzione del servizio di navigazione decise si sospendere, durante le ore del giorno, i collegamenti con i battelli su tutto il lago.
Di conseguenza, quando il mattino successivo un gruppo di civili diretti ad Intra (tra cui, secondo una fonte, molti sfollati provenienti da Milano) si presentarono all’imbarcadero di Laveno Mombello per salire sul Milano, il comandante del piroscafo, capitano Antonio Colombo, disse loro che le partenze erano sospese.
Non solo i civili, però, premevano per raggiungere l’altra sponda del lago: c’era anche un reparto del II Battaglione "M" Venezia Giulia della Divisione "Etna" della Guardia Nazionale Repubblicana. Gran parte di questi uomini, quasi tutti allievi ufficiali, stavano rientrando dalla scuola allievi ufficiali G.N.R. di Varese, dove avevano sostenuto gli esami per la promozione a sergente; alcuni altri stavano rientrando dalla licenza. Erano diretti a Gravellona Toce: il 10 settembre, infatti, il paese piemontese era stato il luogo di un attacco da parte delle formazioni partigiane garibaldine di Cino Moscatelli, proprio nel giorno in cui la cacciata di tedeschi e repubblichini dalla Val d’Ossola aveva sancito la nascita della Repubblica partigiana dell’Ossola. A Gravellona i partigiani erano stati respinti, a causa anche dell’arrivo della colonna nazifascista in ritirata da Domodossola; si era però ritenuto necessario rinforzarne il presidio, anche in preparazione dell’offensiva tedesca e repubblichina per riconquistare la Val d’Ossola.
Il comandante del Battaglione "Venezia Giulia", maggiore Giovanni Ledo, respingendo le obiezioni del comandante Colombo e del personale della Navigazione, dopo lunghe discussioni impose di far salire a bordo i suoi uomini e partire; furono fatti salire a bordo (secondo una versione, dietro insistenza del "comandante della Piazza Militare di Laveno") anche i civili, che premevano anch’essi per raggiungere l’altra sponda del lago, essendo alcuni di loro bloccati fin dal giorno precedente.
Fu così che, alle 9.05 del mattino del 26 settembre 1944, il Milano mollò gli ormeggi da Laveno, sperando di raggiungere Intra senza essere attaccato. Il Lago Maggiore era liscio come l’olio, il cielo terso, “d’un azzurro lievemente striato sopra le morbide curve dei monti”, come ricordò decenni dopo la superstite Alice Spitti: una bella giornata di sole d’inizio autunno.
In tutto, sulla nave si trovavano 45 militari del battaglione "M" Venezia Giulia (3 ufficiali e 42 militi), l’equipaggio ed un numero di passeggeri civili su cui le varie versioni danno notizie contrastanti: una quindicina, una trentina, una quarantina (secondo il sopravvissuto Bruto Pozzetto), o "parecchie decine". Quasi tutti si sistemarono in coperta.      
Purtroppo, quanto temuto dal comandante Colombo e dai dirigenti della S.S.I.F. si avverò poco più tardi: non appena il Milano fu uscito dal Golfo di Laveno (per altra fonte, a metà strada tra Laveno e Intra), apparvero all’orizzonte tre caccia Alleati, probabilmente dei Republic P-47 "Thunderbolt" dell’USAAF (altra fonte parla di tre Supermarine Spitfire britannici, o ancora di sei caccia "angloamericani"). I militi sul Milano, non appena videro gli aerei, cercarono di mettersi al coperto per non farsi vedere, ma gli aerei passarono all’attacco.
La provenienza di questi aerei non è del tutto certa: secondo una versione, sarebbero stati velivoli dell’USAAF normalmente stanziati a Siena ma decollati in questa occasione dalla pista provvisoria allestita a Masera, nella Repubblica dell’Ossola, ed avrebbero attaccato il Milano proprio con l’intento di difendere questa Repubblica, ritenendo (non a torto) che trasportasse truppe repubblichine che avrebbero potuto essere impiegate contro di essa. Secondo varie fonti, anche gli attacchi al Torino ed al Genova, sospettati di trasportare armi e truppe repubblichine, sarebbero da inquadrarsi nell’ambito dell’appoggio angloamericano alla resistenza della Repubblica dell’Ossola, piuttosto che nella generale panoramica dei “target of opportunity”. Questi attacchi, che insieme a qualche lancio di armi furono l’unico concreto aiuto militare Alleato ai partigiani di quella Repubblica, avrebbero in effetti contribuito a rendere più caute le truppe repubblichine nella loro controffensiva, nei giorni seguenti, per il timore di finire sotto attacco da parte degli aerei angloamericani. Ma alla fine non cambiarono molto (la Repubblica dell’Ossola cadde il 23 ottobre 1944), mentre provocarono la morte di molti civili.

I tre cacciabombardieri effettuarono tre passaggi ciascuno, mitragliando e spezzonando la nave ogni volta: in tutto, nove passaggi di mitragliamento.
In pochi minuti lo scafo e le sovrastrutture del Milano furono crivellate da innumerevoli colpi, anche sotto la linea di galleggiamento, e le caldaie centrate e messe fuori uso, provocando forti perdite di vapore e scatenando un violento incendio; tra i passeggeri, sia all’aperto e che sottocoperta, fu una strage.
Il capitano Colombo fu il primo a morire, colpito alla testa mentre era al timone; rimasero uccisi con lui anche altri due membri dell’equipaggio, il marinaio Giovanni Tarazza ed il fuochista Giuseppe Colombara (quest’ultimo venne ritrovato sottocoperta, deceduto per le ustioni). Il macchinista, invece, rimase ferito, ma riuscì a mantenere in funzione le macchine, sia pure al minimo dei giri.
Una passeggera, la ventunenne Alice Spitti, era salita sul Milano assieme alla madre. Stava conversando con un’altra passeggera, una donna di Busto Arsizio, che le aveva chiesto se ci fosse pericolo di bombardamenti a Ghiffa, dove aveva lasciato il figlio piccolo; la ragazza l’aveva rassicurata, e le due stavano ancora parlando, quando videro i tre caccia spuntare dalla direzione di Cannobio. Gli aerei si avvicinarono al Milano ed aprirono il fuco: istintivamente, Alice Spitti si gettò sul ponte. Un uomo si gettò sopra di lei, salvandole la vita: fu infatti ucciso sul colpo dai proiettili, facendole scudo col suo corpo. Quando la giovane si alzò, il Milano era in fiamme; si sentivano continui scoppi, forse provenienti dalla caldaia, e la nave girava su sé stessa, senza controllo, deviando dalla sua rotta. Dappertutto sangue e fumo. Alice Spitti e la madre, entrambe ferite da schegge, furono aiutate ad uscire sul ponte all’aperto, ma qui la scena era ancora peggiore: corpi sparsi sul ponte, morti o feriti ovunque; il comandante Colombo riverso sul timone con la testa spaccata, il battello alla deriva.
Tra i militi del "Venezia Giulia" imbarcati sul Milano c’erano due giovani fratelli triestini, Sergio e Silvio Cosulich: Sergio, ventiduenne, rimase ucciso nell’attacco, mentre Silvio, di un anno più giovane, rimase gravemente ferito. Durante il primo passaggio fu colpito alle gambe, durante il secondo alla testa, durante il terzo (o il quarto) alla spalla; avrebbe passato quattro mesi in ospedale, prima ad Intra e poi a Varese.
Tra le tante vittime vi fu anche il maggiore Renato Ferrini, comandante del I Battaglione del 5° Reggimento della Divisione Fanteria di Marina "San Marco" della Repubblica Sociale Italiana: poco più di due anni prima, da capitano di corvetta della Regia Marina, aveva eseguito col suo sommergibile Axum una delle più brillanti azioni della guerra del Mediterraneo, affondando un incrociatore (il Cairo) e danneggiandone gravemente un altro (il Nigeria) ed una petroliera (l’Ohio) durante la battaglia di Mezzo Agosto. Aveva ricevuto una Medaglia d’Argento al Valor Militare per quel successo; dopo l’armistizio aveva deciso di aderire alla RSI, non più in Marina (la Marina della RSI era pressoché inesistente) bensì nella fanteria di Marina. Da ufficiale di Marina, forse Ferrini si era aspettato di morire su una nave, ma mai avrebbe pensato che sarebbe avvenuto da passeggero su un piccolo battello nelle acque di un lago, senza modo di difendersi.
Chi provò a reagire, senza nessuna speranza di successo, fu il milite Aldo Bucci del "Venezia Giulia": imbracciò il mitra (era l’unico a bordo ad averne uno: gli altri militi avevano solo il moschetto) ed aprì il fuoco contro gli aerei attaccanti. Venne falciato dal tiro delle mitragliatrici, che lo colpirono al ventre: proprio quel giorno compiva vent’anni.
Morto il comandante Colombo, ad assumere il comando fu il maggiore Ledo, che era rimasto ferito; il sergente allievo ufficiale Bruto Pozzetto, da Grado, anche lui del "Venezia Giulia", andò nella timoniera, i cui occupanti erano tutti morti, e prese il timone, facendo faticosamente rotta per l’Isolino San Giovanni e per Pallanza. Alice Spitti ricordò il militare, del quale non conosceva il nome, che chiese dove fosse Intra e poi, saltando le fiamme, raggiunse la timoniera e rimise in rotta il battello che stava deviando senza più nessuno al timone.
Con le macchine che ormai giravano al minimo, avvolto dalle fiamme, l’agonizzante Milano ci mise più di un’ora a raggiungere la riva (normalmente il tragitto da Laveno ad Intra richiedeva mezz’ora): molti passeggeri preferirono tuffarsi nelle acque del lago per cercare scampo, raggiungendo a nuoto la riva. Altri, invece, si erano rifugiati sottocoperta, dove speravano di essere più riparati da eventuali nuovi attacchi.
Claudio Tessitore, di professione bigliettaio, prestava normalmente servizio sul Milano: per puro caso, in quel giorno fatale, era stato assegnato ad un altro piroscafo, il Piemonte. Assisté da distanza all’attacco degli aerei ai danni del Milano, e si diresse verso il battello ferito con una piccola barca, per prestare aiuto: riuscì così a trarre in salvo alcuni militari feriti, oltre a recuperare alcuni cadaveri.
Alla fine, il Milano riuscì ad attraccare nella darsena di Villa Eremitaggio (Pallanza), tra San Remigio e Castagnola (altra fonte parla del muraglione di Villa Scagliola): a questo punto i militi superstiti lanciarono delle cime e, con l’aiuto di alcuni giardinieri e civili (tra cui gli operai di una vicina birreria) precipitatisi nel parco della villa, legarono il battello ai tronchi delle palme del giardino di Villa Eremitaggio, per impedire che andasse alla deriva mentre si procedeva ai soccorsi.
Pompieri, civili e militi della X Flottiglia MAS di stanza a Pallanza, con l’ausilio di scalette di legno e passerelle, aiutarono a sbarcare morti (alcuni dei quali carbonizzati), feriti e superstiti illesi. Alice Spitti fu legata con delle corde per poi essere issata e portata a riva; Sergio Cosulich, gravemente ferito, fu sollevato per una mano sola, essendo l’altra ferita.
I feriti, civili e militari, furono trasportati nell’ospedale di Intra, dove molti di essi morirono nelle ore e nei giorni seguenti; successivamente, i militi della G.N.R. sarebbero stati trasferiti all’Ospedale Militare di Varese.
Nel pomeriggio del 26 settembre, le fiamme che continuavano a divampare a bordo divorarono anche i cavi che trattenevano il Milano agli alberi della riva, ed il relitto del piroscafo (che, secondo una versione, era stato anche colpito a poppa da una bomba durante il quarto passaggio degli aerei) ruppe gli ormeggi e andò alla deriva, fino ad affondare, tra le 16 e le 17, al largo di Punta Castagnola (Verbania).



Due immagini del Milano in fiamme ed in procinto di affondare dopo il mitragliamento (sopra: da www.vfpiemonte.it; sotto: da www.lavenomombelloedintorni.it)



Secondo la stima più accreditata, le vittime del mitragliamento del Milano furono 26: 12 civili e 14 militari della Repubblica Sociale Italiana. Altra versione parla della morte di 10 militi del Battaglione "M" e di un imprecisato numero di civili; secondo il ricercatore Pier Amedeo Baldrati, che scrisse un articolo a riguardo per l’Istituto Storico R.S.I., le vittime del Milano furono 22, ed i feriti 31. Altrove si parla anche di una cinquantina di vittime od addirittura di una settantina, ma si tratta di dati piuttosto vaghi, di dubbia provenienza, e probabilmente esagerati, specie se si considera il numero di persone imbarcate sul Milano.
Tra le vittime di cui si conosce il nome vi sono i tre membri dell’equipaggio (il comandante Antonio Colombo, il marinaio timoniere Giovanni Tarazza ed il fuochista Antonio Colombara) e sedici militari della RSI: oltre al già citato maggiore Renato Ferrini della Divisione "San Marco" (aveva 32 anni ed era di La Spezia) ed al marò della X MAS Augusto Rino Proserpio (19 anni, da Verbania, in servizio alla Scuola Mezzi d’Assalto "Todaro") che si trovava in licenza, morirono quattordici uomini del battaglione "M", ovvero il tenente Carlo Colucci, 30 anni, da Molfetta; il sergente Giuseppe Sestilli, 20 anni, da Melfi; il milite Riccardo Cecconi, 25 anni, da Fiume; e gli allievi ufficiali Glauco Babbi, 39 anni, da Fiume; Aldo Bucci, 20 anni, da Roma; Elio Cosentino, 17 anni, da Napoli; Sergio Cosulich, 22 anni, da Trieste; Antonio Gargiulo, 19 anni, da Castellammare di Stabia; Ettore Ottaviani, 23 anni, da San Mauro in Pascoli; Bruno Pavariani, 18 anni compiuti da pochi giorni, da Cesena; Romolo Vogli, 21 anni, da Budrio; Pasquale Grosso, 18 anni, da Morra de Sanctis; Emilio Sepich, 18 anni, da Fiume; Romeo Montonesi, 19 anni. Colucci, Vogli, Babbi, Bucci e Cosulich morirono a bordo del Milano (i primi due poterono essere identificati, al pari di Ferrini, mentre gli ultimi tre furono trovati carbonizzati), mentre Pavani, Cecconi e Cosentino morirono poche ore dopo nell’ospedale di Intra. Sestilli, Grosso, Sepich e Montonesi morirono nei giorni seguenti, anch’essi nell’ospedale di Intra, per le ferite riportate: Sestilli morì il 28 settembre, Grosso e Sepich il 29 settembre, Montonesi l’11 ottobre 1944.
Ad essi si dovrebbero aggiungere almeno dieci passeggeri civili morti nell’attacco, i cui nomi non sono noti all’autore. Forse le vittime civili furono di più; secondo una fonte, dal registro mortuario del cimitero di Intra risulterebbero tredici civili seppelliti nel cimitero in seguito all’attacco del 26 settembre, ma altre vittime furono seppellite in altri cimiteri della zona.
Altri 29 militi del Battaglione "M" Venezia Giulia (tra cui il maggiore Ledo, il sottotenente Filippo Capelli ed i militi Aurelio Aquini, Italo Bruschi, Giovanni Chiarezza, Silvio Cosulich, Dario D’Aria, Benito Donà, Franco Falzhoger, Giovanni Filippi, Silvano Gerin, Giuseppe Gueli, Ireneo Ianora, Agostino Lo Piccolo, Aldo Pace, Tullio Pascolat, Renato Perisi, Tullio Sandri e Aldo Varicchi) furono ricoverati presso l’Ospedale Maggiore di Varese. Mancano informazioni sui feriti tra i civili.
Le vittime identificate furono sepolte individualmente nel cimitero di Intra o, per gli abitanti della zona, nei cimiteri dei paesi vicini; le salme carbonizzate e irriconoscibili furono sepolte in un’unica tomba per "ignoti", sempre nel cimitero di Intra. Non tutte le vittime, probabilmente, furono trovate; un paio, forse di più, affondarono con il Milano (secondo alcuni, molti civili che si erano rifugiati sottocoperta sarebbero affondati con la nave).
Per un anno dopo la tragedia, secondo il ricordo di alcuni abitanti del luogo, una bambina continuò a recarsi ogni giorno sulla riva del lago, chiamando il padre affondato con il Milano. Alice Spitti, sopravvissuta alla strage, fu visitata per anni da parenti di dispersi che le chiedevano se avesse visto, quel mattino, un loro parente di cui non avevano più avuto notizie.

Terminato il conflitto, le prime due nuove motonavi costruite dalla Navigazione Lago Maggiore ricevettero i nomi di Milano e Genova, a ricordo dei due battelli perduti.
Il 7 maggio 1959 la tragedia del Milano e del Genova venne commemorata con il lancio di una corona di fiori proprio dal Torino, alla presenza del capo di Stato Maggiore della Marina, ammiraglio Pecori Giraldi, di altri nove ammiragli e di una rappresentanza della Marina, oltre che di sindaci, autorità e popolazione rivierasca, compresi anche alcuni superstiti di quei tragici eventi.
Il 9 ottobre 1984, a quarant’anni dall’affondamento, si tenne una nuova commemorazione: di nuovo il Torino, antico gemello e compagno di sventura di Milano e Genova, imbarcò rappresentanze delle autorità civili e religiose e del personale NLM, i parenti dei membri dell’equipaggio deceduti sui due battelli ed altre persone, e depose due corone di fiori sui luoghi dell’affondamento dei due piroscafi. In entrambi i casi venne impartita una benedizione, e fu celebrata una messa di suffragio a bordo della nave. Nella stessa occasione fu realizzata ad Arona, nella sede della Navigazione Lago Maggiore, una targa in memoria dei cinque uomini della Navigazione periti sul Milano e sul Genova.
Attualmente l’affondamento del Milano viene commemorato annualmente esclusivamente da esponenti di gruppi di estrema destra ed associazioni reducistiche della RSI, con il lancio di una corona d’alloro nelle acque del lago, nel punto dove la nave fu affondata. Bruto Pozzetto, il legionario che si era messo al timone del Milano per portare a riva la nave danneggiata, presenziò a queste commemorazioni per molti decenni, così come il commilitone Silvio Cosulich. Nel 1991, per iniziativa di tali associazioni, una lapide in memoria delle vittime del Milano è stata apposta sulla tomba del cimitero di Intra che aveva accolto i resti delle vittime non identificate.

Le prime ricerche del relitto del Milano, per lungo tempo dimenticato, sono state condotte nel 1999 e nel 2003, ad opera dei Vigili del Fuoco della provincia del Verbano-Cusio-Ossola. A questi primi tentativi, rimasti senza risultato, sono seguite nuove ricerche verso la fine del 2007: il 7 novembre di quell’anno, durante un’esercitazione del nucleo sommozzatori della Direzione Regionale VV.FF. Lombardia (in cooperazione con il Comando di Verbania), il relitto del battello è stato individuato a profondità compresa tra i 235 e i 238 metri, a circa 205 metri dalla costa di Verbania, al largo di Villa Ermitage. Ad individuare e filmare il relitto per la prima volta è stato il mezzo ROV (Remotely Operated Vehicle) "Prometeo" dei Vigili del Fuoco, che ha anche recuperato un oggetto inizialmente irriconoscibile: è stato il vecchio bigliettaio del Milano, Claudio Tessitore, ad identificarlo come il gancio usato dal fuochista per pulire la caldaia. Giuseppe Colombara, il fuochista morto sul Milano, era un suo vecchio amico.
Il 10 maggio 2008 tre subacquei, gli italiani Alessandro Scuotto e Mario Marconi e l’olandese Pim Van Der Horst, hanno compiuto la più profonda immersione su relitto mai effettuata scendendo sul relitto del Milano.

Un piccolo mistero aleggia proprio sul ritrovamento del relitto: già nel 1990, infatti, un privato localizzò e filmò sul fondo del lago, mediante un ROV autocostruito, il relitto di uno scafo che giaceva alla profondità di 90 metri. Il relitto, sul quale erano presenti dei resti umani (due teschi), fu all’epoca identificato come il Milano: ma non poteva trattarsi di questa nave, il cui relitto è poi stato localizzato nel 2007 (ed identificato senza possibilità d’equivoco, essendo il nome ancora leggibile) in acque ben più profonde. Di quale nave poteva allora essere il relitto individuato nel 1990? Si potrebbe forse ipotizzare che si trattasse del gemello Genova, anche se non tutto combacia.

Il Milano giace spezzato in due tronconi, distanti una ventina di metri l’uno dall’altro: uno dei due tronconi giace su fondale piatto a profondità compresa tra i 230 e i 238 metri, mentre l’altro è adagiato su un fondale leggermente digradante a profondità di 215-220 metri.
 
Una cartolina colonizzata con il Milano in arrivo a Luino negli anni Trenta (da www.forum.milanotrasporti.org, utente DanieleTO)


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