lunedì 29 settembre 2014

Bolzaneto

Il Bolzaneto all’ormeggio (da www.subacquei.net)

Piroscafo da carico da 2220 tsl e 1285 tsn, lungo 86,96-90,77 metri, largo 12,50-12,56, pescaggio 5,37-6,34 m, velocità 8,5 nodi. Matricola 864 al Compartimento Marittimo di Genova. Appartenente alla Società Anonima ILVA Altiforni ed Acciaierie, con sede a Genova, faceva parte della piccola flotta che l’Ilva adibiva al trasporto dei propri prodotti. Durante la guerra non fu mai requisito dalla Regia Marina, né iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, ma fu egualmente armato con un cannone da 105 mm ed una o due mitragliere ed imbarcò personale della Regia Marina.

Breve e parziale cronologia.

1918
Costruito nei cantieri Nicolò Odero & C. di Sestri Ponente (Genova) per la Società Anonima Ilva. Numero di cantiere 231.
22 ottobre 1942
Il Bolzaneto si trova ormeggiato al ponte Rubattino (Radice di Levante) nel porto di Genova, quando la città ligure viene colpita dal primo dei sei devastanti bombardamenti aerei («area bombing», bombardamento indiscriminato di prestabilite aree di città allo specifico scopo di terrorizzare la popolazione civile ed indurla a sfollare, così colpendo indirettamente il sistema produttivo mediante la sottrazione di manodopera) che il Bomber Command della Royal Air Force lancerà su di essa tra il 22 ottobre ed il 15 novembre, durante la propria “offensiva d’autunno” contro le città del Triangolo Industriale.
Durante l’incursione, effettuata da ben 100 quadrimotori Avro Lancaster (su 112 decollati dalle basi in Inghilterra) che devastano con 180 tonnellate di bombe il centro storico, il porto ed i quartieri orientali causando 39 vittime civili, il Bolzaneto viene colpito da due bombe incendiarie e da due spezzoni pure incendiari (il Bomber Command fa un elevato uso di questi ordigni, allo scopo di scatenare incendi che estendano ulteriormente i danni). I danni verranno successivamente riparati, e la nave riprenderà a navigare.

Il Bolzaneto sotto carico al pontile di Rio Albano (Rio Marina) nel 1938 (g.c. Renzo Sanguinetti, via www.naviearmatori.net)

L'affondamento

Il 28 giugno 1943 il Bolzaneto, al comando del capitano Giuseppe Mazzei, elbano come la maggior parte dell’equipaggio, lasciò Portoferraio, dov’era giunto da Apuania (Marina di Carrara), alla volta di Genova, con un carico di pani (lingotti) di ghisa imbarcati nell’acciaieria Ilva di Portoferraio. A bordo vi erano 36 uomini di equipaggio, 28 civili ed 8 militari della Regia Marina (segnalatori e cannonieri addetti alle armi di bordo).
La navigazione proseguì tranquilla per un giorno, e si sarebbe potuta concludere senza incidenti se la nave non fosse stata avvistata dal sommergibile britannico Sportsman, che, al comando del tenente di vascello Richard Gatehouse, era in missione nell’Alto Tirreno. Fu una decisione presa all’ultimo momento a segnare la sorte del Bolzaneto: alle 9.50 del 29 giugno, infatti, lo Sportsman stava per emergere per attaccare con il cannone un rimorchiatore che aveva avvistato, ma il comandante Gatehouse decise di scrutare l’orizzonte tutt’intorno per un’ultima volta. Fu allora che venne avvistato del fumo verso sudest: Gatehouse decise di lasciar perdere il rimorchiatore, per andare incontro ad una potenziale preda di maggiori dimensioni.
Alle 10.13 lo Sportsman avvistò la fonte del fumo: era il Bolzaneto, che Gatehouse valutò correttamente in circa 2000 tonnellate di stazza lorda, per poi passare all’attacco. Alle 10.44 il sommergibile lanciò un singolo siluro da soli 550 metri di distanza: alle 10.45, dopo una breve corsa, l’arma andò a segno.
Il siluro colpì in corrispondenza della stiva numero 3, a centro nave, e la ghisa del carico, sistemata nella stiva numero 4, scivolò verso il centro della nave e fece emergere la poppa dall’acqua. Il Bolzaneto sembrò esplodere (l’esplosione fu sentita anche dagli abitanti di Bonassola, che ne furono spaventati), si spezzò in due ed affondò in dieci secondi nel punto 44°10' N e 09°32' E (a dieci miglia per 270° da La Spezia; tre miglia ad ovest di Punta Mesco, oppure 1,5 miglia per 290° dalla stessa punta; a meno di un paio di miglia da Bonassola, e tra Bonassola e Deiva Marina), portando con sé la maggior parte dell’equipaggio. Il pesante carico di ghisa fu una delle ragioni di un affondamento tanto repentino.
Perirono 16 membri dell’equipaggio civile e 6 di quello militare, mentre le barche da pesca subito partite da Bonassola non poterono che trarre in salvo 12 civili e due militari, gli unici superstiti. Tra i pochi sopravvissuti vi fu anche il comandante Mazzei, che pochi mesi prima era già fortunosamente scampato all’affondamento di un altro piroscafo, il Palmaiola, silurato da aerei mentre trasportava carburante in Nordafrica.

Le vittime tra l'equipaggio civile:

Otello Braschi, mozzo, da Rio nell'Elba
Mario Caffieri, ingrassatore, da Rio nell'Elba
Fortunato Carletti, primo ufficiale, da Rio nell'Elba
Gino Falanca, secondo ufficiale, da Rio nell'Elba
Giuseppe Giannelli, ufficiale di macchina, da da Rio nell'Elba
Francesco (o Alberto) Giannoni, cameriere, da Rio nell'Elba
Luigi Giannoni, marinaio, da Rio nell'Elba
Romeo Innocenti, fuochista, da Rio nell'Elba
Bernardo Marinari, ufficiale radiotelegrafista, da Genova
Ileano Pietrini, marinaio, da Rio nell'Elba
Giuseppe Raffo, cuoco, da Genova
Dagoberto Regini, marinaio, da Rio nell'Elba
Luigi Silvietti, nostromo, da Rio nell'Elba
Mario Soldani, carbonaio, da Rio nell'Elba
Guelfo Tagliaferro, marittimo, da Porto Longone

L'affondamento del Bolzaneto nel diario di bordo dello Sportsman (da Uboat.net):

"0950 hours - About to surface to engage a tug with gunfire. Took one last all round look. Sighted smoke to the South-East. Abandoned the idea of engaging the tug, bigger prey might be around.
1013 hours - Sighted that the source of the smoke was a merchant vessel of about 2000 tons. Started attack.
1044 hours - In position 44°10'N, 09°32'E fired one torpedo from 600 yards. It hit, the ship blew up, broke in two and in ten seconds had disappeared.
Bolzaneto had a crew of 28 civilians and 8 naval personnel, there respectively twelve and two survivors."

Nel dopoguerra, a causa dell’estrema necessità di metallo per la ricostruzione del Paese, il carico di ghisa del Bolzaneto, che giaceva sparso sul fondale di 40-50 metri tra i due tronconi del relitto, venne recuperato con delle draghe (e con l’appoggio della nave recuperi Artiglio II) dalla Società Recuperi Marittimi (SORIMA).
Il relitto del piroscafo (ritrovato negli anni ’70 dal pilota e subacqueo Dino Mazzantini), oggi divenuto un frequentato luogo d’immersione, giace nel punto 44°10'269" N e 09°33'925" E (oppure 44°10.27' N e 09°33.39' E; a 0,70 miglia dalla Punta di Monte Grosso presso Bonassola), ad una profondità compresa tra i 38-40 ed i 55-60 metri. I due tronconi distano tra di loro 100-150 metri. Il troncone poppiero, nel quale sono riconoscibili elica, timone con relativo apparato di governo, le gru di una scialuppa (che rappresentano il punto più alto, a 38 metri), i resti del fumaiolo, le maniche a vento ed un cannone scudato da 105 mm, puntato verso sinistra (le cui munizioni, accatastate nel deposito sottostante, sono visibili a causa del crollo del ponte, tanto da essere segnalate per la loro pericolosità, nel 2012, negli avvisi ai naviganti redatti dall’Istituto Idrografico della Marina), è inclinato di circa 25 gradi a sinistra. Le stive verso il centro sono insabbiate, mentre l'estrema poppa si erge per diversi metri dal fondale (l'appruamento è di 35°). Il troncone prodiero, semidistrutto, è lungo solo una quindicina di metri; tra i due tronconi il fondale è cosparso di rottami di varie dimensioni. Nel relitto sono impigliate molte reti da pesca (la più grande, impigliatasi nel 1995, avvolge parte della poppa).

Il Bolzaneto in un dipinto (da “Storia della marineria elbana” di Alfonso Preziosi, via www.mucchioselvaggio.org)


domenica 28 settembre 2014

V 121 Carloforte

Il Carloforte fotografato ad Albissola il 5 dicembre 1936 (g.c. Letterio Tomasello via www.naviearmatori.net

Motoveliero da carico (brigantino goletta con scafo in legno) da 142,87 tsl e 116,41 tsn, lungo 28,87 m, largo 7,10 e con pescaggio di 2,93 m. Appartenente all’armatore Marongiu & C. di Carloforte, matricola 220 al Compartimento Marittimo di Cagliari, segnale distintivo ILFG (in precedenza NHVA).

Breve e parziale cronologia.

1922-1923
Costruito nei cantieri Francesco Serra di Cervo S. Bartolomeo (Imperia) come veliero “puro” (senza motore), per l’armatore Emilio Parodo di Livorno, che ne è anche il comandante. Attivo nel Mediterraneo.
Successivamente motorizzato con un motore Klimax Motoren und Schiffswerft A. G. di Linz da 330 CV e venduto all’armatore Augusto Marongiu fu Nicola, di Carloforte.
8 gennaio 1941
Requisito dalla Regia Marina ed iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello stato con caratteristica V 121, quale vedetta foranea.

Nessun equivoco

Alle 23.05 del 12 giugno 1941 (ora di bordo) il sommergibile olandese O 24, al comando del capitano di corvetta Otto de Booy, aveva già affondato da qualche ora il piroscafo Fianona quando avvistò nel punto 43°45’ N e 09°20’ E un mercantile che procedeva lentamente verso sud: il Carloforte. Il sommergibile lanciò un primo siluro, che però passò sotto lo scafo del bersaglio, senza esplodere; in breve le distanze si ridussero abbastanza da permettere a de Booy di riconoscere la nave come un motoveliero, del quale sovrastimò la stazza in 500 tsl.
L’O 24 segnalò al Carloforte di fermarsi subito, ordinando all’equipaggio del motoveliero di abbandonare la nave ed affondarla, e poi sottolineando l’ordine con una raffica di mitragliatrice. Era l’1.09 secondo l’orario italiano.
A bordo del Carloforte, però, si pensò probabilmente di essersi imbattuti in un sommergibile italiano e che fosse in corso un equivoco, perciò l’equipaggio non eseguì gli ordini dell’O 24, bensì iniziò a segnalare ‘verde’, ‘bianco’ e ‘rosso’, i colori della bandiera italiana, per far capire al battello “amico” di essere anch’esso una nave italiana. (Questo secondo il giornale di bordo dell’O 24; “Navi mercantili perdute” parla invece di un breve serrato combattimento, durante il quale il Carloforte venne colpito in più parti prima di essere speronato ed affondato.) Ma proprio perché non vi era alcun equivoco, ed il Carloforte era italiano, l’O 24 aprì di nuovo il fuoco con la mitragliera, sparando diverse raffiche contro la linea di galleggiamento del motoveliero. A questo punto l’equipaggio iniziò ad abbandonare la nave, poi il sommergibile speronò più volte il Carloforte, mettendone fuori uso il motore, dopo di che la piccola nave affondò in breve a 36 miglia per 294° (a nordovest) della Gorgona. Era l’1.27, ora italiana.
Non vi furono vittime; tutti i 14 uomini che componevano l’equipaggio del motoveliero, tra cui due feriti gravi, raggiunsero la costa su una scialuppa.


L’affondamento del Carloforte nel giornale di bordo dell’O 24 (da Uboat.net):

“2305 hours – In position 43°45'N 09°20'E encountered a Southbound merchant vessel steaming at slow speed. Fired one torpedo but it most likely passed underneath the target.
The vessel was soon seen to be a motor schooner of about 500 tons. She was warned to stop at once by signal. Then to sink their ship and to abandon it. A burst of machine gun fire followed but the Italians did not start to comply, they started to signal 'green', 'white' and 'red', the colours of the Italian flag. And just because they were Italians more burst of machine gun fire, now in the schooners waterline, followed. They now started to abandon ship. O 24 now rammed the schooner several times and this put the engine out of order and the schooner sank soon afterwards.”




giovedì 25 settembre 2014

Quintino Sella


Il Sella nella sua configurazione originaria (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

Cacciatorpediniere capoclasse della classe Sella (1279 tonnellate di dislocamento standard e 1480 a pieno carico, primi cacciatorpediniere italiani con cannoni da 120 mm ed in postazioni sopraelevate nonché centrali di tiro meccaniche e tubi lanciasiluri da 533 mm).
Durante la guerra operò prevalentemente in Mar Egeo, scortando convogli e dando la caccia ai sommergibili, per poi essere destinato all’addestramento in Adriatico.
Svolse 116 missioni di scorta e 12 di altro tipo, tra cui alcune di ricerca del nemico, percorrendo in tutto 44.000 miglia nautiche.

Breve e parziale cronologia.

12 ottobre 1922
Impostazione nei cantieri Pattison di Napoli.
25 aprile 1925
Varo nei cantieri Pattison di Napoli. La nave viene benedetta dal cardinale Alessio Ascalesi, arcivescovo di Napoli; i discendenti di Quintino Sella donano alla nave la bandiera, un sontuoso cofano portabandiera con una scultura bronzea recante i simboli del Club Alpino Italiano (di cui Quintino Sella fu fondatore), oltre ad una statuetta dello stesso Quintino Sella ed una targa recante un estratto del suo testamento, che sarà poi collocata nella murata di dritta della tuga poppiera.
25 marzo 1926
Entrata in servizio.

Il Sella nel suo aspetto originario, con i due fumaioli di eguale altezza (da Vittorio Emanuele Tognelli, “La difesa del traffico con l’Albania, la Grecia e l’Egeo”, USMM, Roma 1964)

Estate 1926
Effettua una lunga crociera toccando porti della Grecia e del Dodecaneso e poi Famagosta, Alessandria d’Egitto e Tobruk, per il rodaggio delle proprie macchine.
Viene poi posto alle dipendenze dell’Accademia Navale di Livorno, divenendo nave capo gruppo del gruppo di unità assegnate alle esercitazioni per gli allievi.
Fine febbraio 1927
Sostituito dal cacciatorpediniere Generale Antonio Cascino nel ruolo di unità addestrativa, viene assegnato alla VII Squadriglia Cacciatorpediniere (successivamente ridenominata IV Squadriglia) della Squadra Navale.
1928
Compie una breve visita a Maiorca.
Dato che le unità della classe Sella, molto innovative rispetto alle classi precedenti, hanno problemi di stabilità, autonomia, tenuta del mare e solidità delle sovrastrutture, il Sella viene dotato di grosse alette antirollio, imbarca molta zavorra e subisce il rinforzo delle sovrastrutture.
1929
Il Sella ed i gemelli Francesco Crispi, Giovanni Nicotera e Bettino Ricasoli formano la IV Squadriglia Cacciatorpediniere, che, insieme alla III Squadriglia (quattro unità classe “Sauro”) ed all’esploratore Pantera (conduttore), compongono la 2a Flottiglia della I Divisione Siluranti, inquadrata nella 1a Squadra Navale di base a La Spezia.
Sella, Nicotera e Ricasoli compiono crociere nei porti spagnoli, sia sulla costa mediterranea che su quella atlantica, raggiungendo anche Lisbona, poi tornano in Italia con scalo a Tripoli.
A seguito di lavori di modifica, l’armamento principale, originariamente composto da un complesso binato da 120/45 mm Schneider-Canet-Armstrong 1918-19 e da un pezzo singolo dello stesso tipo, viene portato a due complessi binati, uno Schneider-Canet-Armstrong 1918-19 ed uno Odero-Terni-Orlando 1926.

La nave a Venezia (g.c. Antonio Cimmino)

28 ottobre 1929
Il Sella partecipa, insieme al rimorchiatore La Famiglia, alle ricerche delle salme delle vittime dell’idrovolante britannico City of Rome delle Imperial Airways, il quale, ammarato per un guasto meccanico durante il volo da Alessandria d’Egitto a Genova con tre membri dell’equipaggio e quattro passeggeri, è affondato senza superstiti, a causa della burrasca, durante un tentativo di rimorchio da parte dello stesso La Famiglia, una decina di miglia a sudovest dell’isola del Tino. Vengono recuperati i corpi del pilota L. Spencer Birt, del radiotelegrafista S. J. Stone e del passeggero Charles Ritchie, gli altri non verranno mai ritrovati.
1930-1931
Compie crociere estive in Grecia e Dodecaneso con la I Squadra Navale.
1931
Il Sella, il gemello Francesco Crispi, i più recenti Nazario Sauro e Cesare Battisti ed il più grande Tigre formano la II Flottiglia Cacciatorpediniere della 2a Divisione della I Squadra Navale.
Il Sella viene successivamente assegnato alla riserva divisionale della II Squadra, venendo dislocato a Taranto.
Agosto 1932
Assegnato alla VI Divisione Navale a Venezia, esercitando poi attività addestrativa, principalmente in Alto Adriatico, per più di tre anni.
In seguito fa parte, per poco tempo, delle forze dipartimentali della Spezia.
È in questo periodo comandante del Sella il capitano di fregata Umberto Novaro, futura Medaglia d’oro al Valor Militare. Presta servizio sul Sella anche un’altra futura MOVM, il sottotenente di vascello Gino Birindelli.
Inizio 1936
Dislocato in Dodecaneso per servizi nell’arcipelago e collegamento con la Cirenaica.
Successivamente subisce la sostituzione delle caldaie con altre di differente tipo.
1° settembre 1936
Assume il comando del Sella il capitano di corvetta Anselmo Lazzarini.
Fine 1937
Torna in Italia e viene assegnato alla IV Squadriglia dipartimentale, avente base a Brindisi, svolgendo scarsa attività locale.
1938
Le due mitragliere singole da 13,2/76 mm contraeree vengono sostituite con due mitragliere binate dello stesso calibro. Una delle caldaie originarie viene sostituita, a scopo sperimentale, con una caldaia La Mont a circolazione forzata, di potenza di poco più bassa ma in grado di aumentare l’autonomia; l’esperienza risulterà positiva.
Maggio 1939
La IV Squadriglia viene trasferita a La Spezia.

L’unità nell’estate del 1939 (Coll. E. Bagnasco via M. Brescia e www.associazione-venus.it)

1939
Altri lavori di modifica, al fumaiolo poppiero, che viene accorciato di circa due metri e munito di un’“unghia”.
Il Sella viene poi trasferito nel Dodecaneso quale stazionario, insieme a Crispi, Nicotera e Ricasoli, ma nel gennaio 1940 questi ultimi due verranno venduti alla Svezia, riducendo la IV Squadriglia a due unità.
10 giugno 1940
All’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale il Sella forma, insieme al gemello Francesco Crispi, la IV Squadriglia Cacciatorpediniere, con base a Rodi ed alle dipendenze del Comando Navale Mar Egeo. Sono ormai tra i cacciatorpediniere più obsoleti della Regia Marina, inadatti ad attività di squadra; al contempo, sono le navi da guerra più potenti disponibili nel Dodecaneso. Inizialmente saranno adibiti soprattutto a compiti difensivi.
6 giugno-10 luglio 1940
Il Sella, insieme al Crispi, alle torpediniere Libra, Lince e Lira ed al posamine ausiliario Lero, partecipa alle operazioni di minamento difensivo delle acque del Dodecaneso. Insieme a Crispi e Lero il Sella posa 6 campi minati antinave con 25 mine tipo Elia ciascuno nelle acque di Stampalia, ed insieme anche alle torpediniere vengono posati 12 campi minati antinave di 30 mine Elia ciascuno ed uno antisommergibile con 65 mine nelle acque di Lero, e 6 sbarramenti antinave (con 25 mine tipo Elia ciascuno) e due antisommergibile (uno di 25 ed uno di 50 mine, sempre tipo Elia) lungo le coste di Rodi.
19 novembre 1940
Sella e Crispi bombardano nottetempo il porto dell’isola di Samo, in mano alle truppe greche, su ordine dell’ammiraglio Luigi Bianchieri, comandante militare marittimo del Dodecaneso: il cannoneggiamento è effettuato in risposta ad un colpo di mano greco avvenuto il 18 novembre, quando un drappello ellenico ha attaccato il piccolo presidio italiano dell’isolotto di Gaidaro, uccidendo un uomo e catturandone quattro. Seguiranno a questo, nei giorni successivi, attacchi lanciati contro Samo nell’intento di scoraggiare altre azioni offensive da parte greca, ed effettivamente non si verificheranno più altre sortite greche contro le isole in mano italiana.


Il Sella in un bacino galleggiante a Portolago, nell’isola di Lero (g.c. STORIA militare).

Inizio 1941
Viene sottoposto ad alcuni lavori (al pari del Crispi) per poter operare come nave appoggio di mezzi d’assalto: vengono realizzate a centro nave alcune selle che ospiteranno sei barchini esplosivi tipo MTM (Motoscafo da Turismo Modificato) e delle piccole gru elettriche per sollevare e mettere a mare gli MTM (tre per lato, in coperta a centro nave, così impedendo, tuttavia, l’impiego dei tubi lanciasiluri). L’equipaggio, sottoposto a specifico addestramento nelle semplici manovre di messa a mare dei barchini, riesce a ridurre il tempo della loro esecuzione a soli 30-40 secondi.
Gennaio 1941
Sella e Crispi prendono il mare per la prima missione con barchini esplosivi contro la base britannica di Suda, sull’isola di Creta, ma le navi nemiche, obiettivo dell’attacco, lasciano frattanto il porto, così che Sella e Crispi, informati del fatto, devono tornare alla base.
Febbraio 1941
Nuovo tentativo di attacco contro Suda con i barchini esplosivi da parte di Sella e Crispi, ma la ricognizione rivela che nella base cretese vi sono solo poche navi e di scarsa importanza, così che la missione vene nuovamente annullata, ed i due cacciatorpediniere tornano alla base.
25-28 febbraio 1941
Il 25 febbraio Sella, Crispi e le torpediniere Lupo e Lince imbarcano a Rodi 240 militari, che devono riconquistare l’isola di Castelrosso, occupata poche ore prima da 200 commandos britannici nell’operazione denominata «Abstention». Sella e Crispi, preceduti dalle due torpediniere e dai MAS 541 e 546, giungono a Castelrosso il mattino del 27 febbraio. La flottiglia italiana, appoggiata anche dalla Regia Aeronautica, è comandata personalmente dall’ammiraglio Luigi Bianchieri, comandante delle forze navali del Dodecaneso; in tutto vengono sbarcati 250 soldati ed 88 marinai al comando del tenente colonnello Fanizza. Il cacciatorpediniere HMS Hereward, informato dai commandos dello sbarco in corso, aspetta, prima d’intervenire, l’arrivo del Decoy, distante in quel momento circa 40 miglia dalla costa; le due unità si mettono poi alla ricerca delle navi italiane, ma non riescono a trovarle. Dopo lo sbarco ed il bombardamento il Sella si mette a pattugliare le acque ad ovest dell’isola (Lupo, Lince e Crispi a sud) all’infruttuosa ricerca delle navi britanniche aventi a bordo le truppe evacuate da Castelrosso; niente accade all’infuori di una scaramuccia notturna, con cannone e siluro, tra il Crispi ed il cacciatorpediniere britannico Jaguar, conclusasi senza danni per ambo le parti. Entro il 28 febbraio, Castelrosso viene riconquistata dalle forze italiane, che catturano una quarantina di prigionieri.
24 marzo 1941
Il Sella (CC Arturo Redaelli) ed il Crispi, pronti già dal 23, vengono dislocati a Stampalia in preparazione di un nuovo attacco contro Suda, essendo finalmente mutato il tempo, rimasto favorevole per le prime due decadi di marzo. Le due unità giungono nell’isola nel pomeriggio, ormeggiandosi a fianco del posamine ausiliario Lero (Sella a dritta e Crispi a sinistra), sul quale sono sistemati i piloti dei barchini.
Lo stesso giorno un bombardiere britannico colpisce il Lero: le schegge arrecano lievi danni anche al Crispi (7 morti e 10 feriti) ed al Sella. Ciononostante, la missione prosegue: i marinai applicheranno sui barchini esplosivi delle targhette con i nomi dei caduti.
25 marzo 1941
Dopo che, il 24, un idrovolante ha portato a Stampalia i disegni delle ostruzioni e degli ormeggi delle navi a Suda, ricavati dalle fotografie scattate dalla ricognizione aerea, il mattino del 25 i ricognitori segnalano che a Suda sono presenti un incrociatore pesante, due cacciatorpediniere e 12 mercantili (e che a Suda è entrato un convoglio di 16 navi): Sella e Crispi lasciano così l’isola alle 17 (o tra le 16.30 e le 17.30), per portarsi in un punto prestabilito (punto X) 6 miglia a nord della penisola di capo Akrotiri (circa dieci miglia a nordest della baia di Suda). Raggiunta tale posizione alle 23.30 (23.55 per altra fonte), i due cacciatorpediniere mettono a mare 6 MTM – operazione che richiede solo pochi minuti – prima di avviarsi, alle 23.41, sulla rotta di rientro. I barchini, penetrati nella baia di Suda, otterranno una notevole vittoria, semiaffondando l’incrociatore pesante York (mai più riparato) e sventrando la nave cisterna greca Pericles (che, rimasta a galla, affonderà in seguito durante il rimorchio in Egitto per le riparazioni). I sei piloti degli MTM (TV Luigi Faggioni, comandante, STV Angelo Cabrini, capo meccanico di II classe Alessio De Vito, capo meccanico di III classe Tullio Tedeschi, secondo capo meccanico Lino Beccati, sergente cannoniere Giulio Barberi), come d’altra parte previsto anche dal piano, vengono catturati.
30 aprile-20 maggio 1941
Partecipa, con altre unità, all’occupazione delle isole Cicladi.
22 maggio 1941
Su richiesta del comando tedesco, il Sella parte dal Pireo alle cinque del mattino insieme al Crispi, all’anziana torpediniera Monzambano ed alle più moderne Libra e Lince trasportando truppe tedesche (alcuni battaglioni di Gebirgsjäger) dirette a Suda, a rinforzo dei reparti che vi stanno già sostenendo duri combattimenti nell’ambito dell’operazione «Merkur» per la conquista dell’isola (dopo che altri due convogli di caicchi diretti a Creta, carichi di truppe tedesche e scortati dalle torpediniere Lupo e Sagittario, sono stati semidistrutto il primo e costretto al rientro il secondo da attacchi britannici). La situazione a Candia, per le forze tedesche, è critica, ed è stato richiesto che le cinque navi (che dopo la partenza dal Pireo hanno diretto verso sud) sbarchino le truppe in aperta spiaggia, a Maleme. Alle 8.15, però, l’avvistamento, da parte della ricognizione aerea, di una superiore formazione navale britannica composta da quattro incrociatori leggeri (Naiad, Perth, Carlisle e Calcutta) e tre cacciatorpediniere (Nubian, Kandahar e Kingston), le stesse navi nelle quali si era imbattuto il convoglio della Sagittario (che grazie alla reazione della torpediniera si era posto in salvo al completo, ricevendo però ordine di rientro), costringe tuttavia ad ordinare alle cinque navi di tornare in porto. Durante la navigazione di rientro, alle 8.45, le unità vengono anche accidentalmente attaccate da bombardieri in picchiata Junkers Ju. 87 “Stuka” della Luftwaffe, che le scambiano per nemiche: il Sella viene di poco mancato da una bomba, che cade in mare qualche metro a poppavia sulla dritta, e viene poi anche mitragliato dallo stesso aereo che ha sganciato l’ordigno. I danni non sono gravi, ma cinque uomini rimangono uccisi (tre uomini del Sella e due soldati tedeschi) ed altri 32 feriti (15 italiani e 17 tedeschi).
Le vittime tra l’equipaggio del Sella sono il marinaio Mario Toffolo, il marinaio cannoniere Mario Giacinti ed il marinaio fuochista Ercole De Buono; altri due uomini, il sottocapo elettricista Giuseppe Fabris ed il marinaio Gregorio Bonaccorso, moriranno rispettivamente il 28 ed il 30 maggio 1941.
19 settembre 1941
Sella, Crispi e l’incrociatore ausiliario Barletta lasciano Suda per scortare al Pireo le motonavi Città di Savona e Città di Marsala.
Alle 14.30 il sommergibile britannico Torbay (CC Anthony Cecil Capel Miers) avvista a 9,3 miglia per 020° dall’isola di San Giorgio (Golfo di Atene) il convoglio italiano. Avvicinatosi a tutta forza, alle 15.10 il Torbay (nel punto a 9,6 miglia per 003° dall’isola di San Giorgio) lancia quattro siluri da 3660 metri. Alle 15.15, nel punto 37°45’ N e 23°50’ E, il Crispi avvista le scie di tre siluri, ed un aereo tedesco del 126. KG le segnala a sua volta, dando la posizione come 37°37.5’ N e 23°55’ E. Nessuno dei siluri va a segno, e la scorta contrattacca con 14 bombe di profondità, senza che il Torbay sia danneggiato. Il convoglio giunge poi al Pireo alle 17.50.

Vista da poppavia (da “Una giornata da non dimenticare”, supplemento alla Rivista Marittima n. 1 del gennaio 2004, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net)

26 settembre 1941
Parte dal Pireo insieme all’incrociatore ausiliario Brioni (caposcorta al comando del CF Menini) ed alla torpediniera Libra, per scortare a Candia le motonavi Città di Bastia e Città di Marsala, con truppe della Divisione «Siena», ed i piroscafi Trapani (tedesco) e Sant’Agata (italiano), carichi di rifornimenti italiani e tedeschi. Il convoglio è diviso in due gruppi che procedono a cinque miglia di distanza l’uno dall’altro: davanti le due le due motonavi scortate da Libra e Brioni, più indietro i due piroscafi scortati dal Sella.
Alle 5.53 del 27 settembre il sommergibile britannico Tetrarch (capitano di corvetta G. H. Greenway) avvista il convoglio, ed alle 6.20 il battello lancia due siluri da 1370 metri contro la Città di Bastia, immergendosi subito dopo in profondità per sfuggire alla prevedibile reazione della scorta.
Alle 6.21 del 27 settembre le due motonavi, in navigazione a dieci nodi, stanno passando dalla linea di fila alla linea di fronte, mentre le unità di scorta zigzagano ad elevata velocità sui fianchi del convoglio (non è ancora arrivato, invece, l’aereo assegnato per la scorta aerea), quando la Città di Bastia, senza che nessuno da bordo abbia avvistato scie di siluri, viene colpita da un siluro a poppa sinistra, tra le stive 3 e 4. Un altro siluro, quasi contemporaneamente, passa 60 metri a poppa del Brioni. La Città di Marsala prosegue per la sua rotta, mentre il Brioni, dopo aver eseguito le segnalazioni previste per simili casi, subito si avvicina alla Città di Bastia per recuperarne i naufraghi. Il Sella, avvicinatosi dopo l’attacco, e la Libra, frattanto, danno la caccia al Tetrarch (che alle 7.14 conterà l’ultimo dei 17 scoppi di bombe di profondità, tutti lontani, per poi tornare a quota periscopica alle 8.13 e vedere Sella e Libra impegnati in caccia antisommergibile 2740 metri a poppavia), con tutti i mezzi disponibili, anche per evitare che questi possa attaccare il Brioni impegnato nei soccorsi.
Dopo solo un quarto d’ora, alle 6.36, la Città di Bastia affonda in posizione 36°21’ N e 24°33’ E, una dozzina di miglia a sud di Milo, portando con sé 150 dei 582 uomini a bordo. Solo due scialuppe hanno potuto essere calate; la maggior parte dei superstiti si aggrappa alle zattere di salvataggio ed ai rottami che galleggiano. Il Brioni mette a mare quattro imbarcazioni per recuperare i naufraghi; ai soccorsi, ostacolati dal mare agitato, parteciparono anche le due stesse lance del Città di Bastia e, dalle dieci del mattino, anche una del Sella. Nel frattempo arriva sul posto anche la torpediniera Cassiopea.
Alle undici del mattino le operazioni si salvataggio sono terminate con il salvataggio di 432.
Concluso il recupero dei superstiti, al comandante del Brioni non rimane che ordinare a Libra e Sella di scortare a Candia il Trapani ed il Sant’Agata ed alla Cassiopea di fare lo stesso con la Città di Marsala, mentre il Brioni stesso rientra al Pireo.
Il giorno seguente, alle 8.26, il Tetrarch attacca di nuovo il convoglio nel canale di Kea, lanciando due siluri contro le navi di coda, ma questa volta nessuna nave viene colpita.
28 settembre 1941
Sella e Libra lasciano Iraklion di scorta alla motonave Città di Marsala ed al piroscafo tedesco Yalova, diretti al Pireo.
Alle 23.14 il Tetrarch avvista, a 24 miglia per 170° dall’isola di San Giorgio (posizione approssimata 37°10’ N e 24°00’ E), il convoglio in navigazione su rotta 350° alla velocità di otto nodi. Alle 23.29 il sommergibile s’immerge, ed alle 23.37 lancia due siluri (più un terzo difettoso) contro lo Yalova, da 2300 metri: il piroscafo viene colpito e, con 9 morti a bordo, dovrà essere portato all’incaglio per evitarne l’affondamento. Dalle 23.37 alle 00.45 del 29 la scorta reagisce con dieci bombe di profondità, nessuna delle quali danneggia il Tetrarch.
3 ottobre 1941
Scorta dal Pireo a Candia, insieme alla torpediniera Castelfidardo, la nave cisterna Rondine.
6 ottobre 1941
Sella e Castelfidardo scortano la Rondine da Iraklion a Suda.
7 ottobre 1941
Salpa da Suda alle 8.35 per scortare al Pireo, unitamente alla Castelfidardo, i piroscafi Trapani e Salzburg, carichi di truppe e materiali per la Wehrmacht. Alle 10.35, ad una distanza di nove miglia, il sommergibile britannico Talisman (capitano di corvetta M. Willmott) avvista il convoglio (sorvolato anche da due idrovolanti) che poi identifica alle 11.10 nel punto 34°45’ N e 24°08’ E. Alle 11.58 ed alle 11.59, nel punto 35°43’ N e 24°00’ E (circa 15 miglia a nord di Suda), il Talisman lancia un siluro contro il Salzburg (da 2300 metri) e due contro il Trapani (da 2750 metri), ma tutte le armi mancano i loro bersagli (una sfiora il Trapani, un’altra esplode alle 12.02 senza colpire nessuna nave), ed alle 12.09 il Sella dà inizio alla caccia con bombe di profondità, che prosegue per 35 minuti senza causare danni al sommergibile, immersosi a 64 metri dopo i lanci. Il convoglio riprende poi la navigazione, arrivando al Pireo senza altri intoppi.
11 ottobre 1941
Sella, Castelfidardo, Lupo ed un’altra torpediniera, la Calatafimi, scortano dal Pireo a Kavaliani (presso Salonicco) i piroscafi TrapaniElliCaterina M. e Volodda, con truppe e rifornimenti della Wehrmacht (Elli e Trapani proseguirono poi da soli per Salonicco).
15 ottobre 1941
Il Sella salpa dal Pireo per scortare a Salonicco, insieme alle torpediniere Alcione e Sirio, un convoglio formato dai piroscafi tedeschi Burgas ed Artemis Pitta e dalle cisterne Torcello (italiana) e Petrakis Nomikos (tedesca). Alle 8.50, nel punto 37°40’ N e 23°51’ E (al largo dell’isola di Arsida), il sommergibile britannico Thunderbolt (tenente di vascello C. B. Crouch) avvista il convoglio, ed alle 9.53 l’unità lancia tre siluri da 600 metri contro la Petrakis Nomikos. L’attacco del Thunderbolt è totalmente infruttuoso, e dalle 9.58 alle 10.31 la scorta reagisce lanciando dieci bombe di profondità, che arrecano alcuni danni al sommergibile, specie al suo sonar. Due unità della scorta rimangono poi in zona per tutto il giorno.

Il Sella a Venezia (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)

19 ottobre 1941
Su ordine del Comando Gruppo Navale dell’Egeo Settentrionale (Marisudest), il Sella prende il mare e raggiunge un convoglio, in navigazione dal Pireo a Candia, formato dalle motonavi Città di Agrigento e Città di Marsala e dai piroscafi Tagliamento e Salzburg, scortati dalla torpediniera Monzambano e dall’incrociatore ausiliario Barletta. Il Sella va a rimpiazzare un’altra torpediniera della scorta, la Lupo, che si è fermata a dare assistenza alla terza torpediniera della scorta, l’Altair, che ha urtato una mina nel Golfo di Atene, perdendo la prua. Il convoglio giungerà infine a destinazione, ma l’Altair affonderà, così come la torpediniera Aldebaran, inviata a cercarne alcuni naufraghi e saltata anch’essa su di una mina.
22 ottobre 1941
Il Sella, la torpediniera Monzambano e l’incrociatore ausiliario Barletta scortano da Candia al Pireo le motonavi Città di AgrigentoCittà di Marsala ed il piroscafo Triton Maris.
25 ottobre 1941
Salpa in mattinata dal Pireo insieme alla torpediniera Sirio, per scortare ad Iraklion i piroscafi Monrosa e Sant’Agata, con truppe e materiali della Divisione «Siena».
Alle 12.45 il convoglio, mentre procede sulla rotta di sicurezza tra le isole di Gaidaro e Phleva (con rilevamento 142°) e sta per incrociare un convoglio minore composto dal piroscafo tedesco Fanny Brunner e dalla torpediniera Libra, partiti da Lero, viene avvistato dal sommergibile britannico Triumph (CC Wilfrid John Wentworth Woods). Il Triumph, dopo aver avvistato il convoglio alla propria sinistra, manovra per attaccare il Monrosa, che procede in testa al convoglio. Alle 13.16 il battello lancia da 3200 metri i primi quattro siluri, contro il Monrosa.
Alle 13.18 il velivolo tedesco che costituisce la scorta aerea scende in picchiata e lancia tre bombe contro l’unità nemica, arrecandole lievi danni e costringendola ad immergersi in profondità (dapprima 37 e poi 46 metri) ed a rinunciare ad attaccare anche il Sant’Agata, ma pochi secondi dopo il Monrosa, che ha avvistato scie di siluri ma non ha manovrato abbastanza prontamente per evitarli, viene colpito al centro ed a poppa da almeno un siluro, forse due, mentre altri tre esplodono in costa, sul vicino isolotto di Arsida: scosso dallo scoppio delle caldaie, il piroscafo affonda di poppa alle 13.30, nel punto 37°41’ N e 23°53’ E, tra Gaidaro e Phleva (circa tre miglia a nordovest dell’isola di Patroclo), trascinando con sé 148 dei 265 uomini a bordo.
Intanto il Sella, vista apparire una bolla nel punto in cui sono cadute le bombe dell’aereo, si porta sul posto alla massima velocità, getta 19 bombe di profondità e lancia in mare un segnale; poi la Libra lo raggiunge, risalendo la scia di un siluro con rilevamento 230°, poi accostando leggermente a dritta verso il punto in cui due ricognitori continuano a scendere in brusche e reiterate picchiate: poco prima di arrivare sul luogo, la Libra vede due grosse bolle d’aria a proravia e lancia su quel punto sette cariche di profondità, poi inverte la rotta e lanciò altre due bombe da 100 kg sull’ampia chiazza di nafta che è apparsa in superficie. La Sirio, che si trovava sul lato settentrionale del convoglio, raggiunge la zona in cui si presume essere il battello, lancia delle bombe di profondità ed usa anche la torpedine da rimorchio. Alle 13.45 anche degli Stukas tedeschi scendono in picchiata e sganciano bombe su un punto a dieci miglia per 270° da Gaidaro, indicando la presenza del sommergibile al MAS 534, frattanto sopraggiunto, che vi lancia sei bombe di profondità, vedendo poi apparire (dopo 15 secondi) tre bolle d’aria di 20 metri di diametro e poi una densa chiazza di nafta. Alle 15.45 anche il cacciasommergibili ausiliario AS 43 Fedelsono esegue lancio di cariche di profondità un miglio ad ovest di Gaidaro, avvertendo due esplosioni dopo l’ottavo lancio, seguite dall’emersione di rottami e nafta e poi persino del sommergibile stesso – così dichiarerà il Fedelsono – a 300 metri a poppa del Fedelsono, che tenta di speronarlo ma non ci riesce perché il sommergibile, notevolmente sbandato a sinistra, s’immerge di nuovo. Alle 17.34 il MAS 538 raggiunge la zona dell’attacco del MAS 534, notando chiazze di nafta ed alcune bolle d’aria, e lanciando quasi nello stesso punto due bombe di profondità regolate per 75 metri, dopo le quali aumenta la quantità di nafta ed inizia ad apparire anche petrolio; poi lancia un’altra bomba a dieci metri di distanza, che fa emergere una bolla alta mezzo metro, molto scura. Subito dopo, il MAS 538 vede a circa cinquanta metri un ribollire in superficie e poi una massa scura che pensa essere il sommergibile che tenta di emergere; il MAS lancia altre due bombe e si appresta a lanciare i siluri, ma la “macchia scura” scompare.
Da parte italiana si riterrà che il sommergibile attaccante, danneggiato dal primo contrattacco ad opera di Sella, Sirio e Libra, sia riuscito ad allontanarsi di 2,6 miglia, lasciandosi dietro una scia di nafta, per poi essere sicuramente affondato dai MAS 534 e 538.
In realtà, il Triumph, che durante l’attacco si è ritirato lentamente verso ovest mentre le esplosioni lo scuotono violentemente, è stato seriamente danneggiato dall’ordalia di bombe di profondità (delle cui esplosioni verranno contate, a bordo del battello britannico, tra le 60 e le 70, ma con accuratezza decrescente), ma ne è alla fine uscito, e giungerà ad Alessandria nove giorni più tardi, con alcuni feriti a bordo.

  
La nave al Pireo nel dicembre 1941 (foto Aldo Fraccaroli, Coll. Domenico Jacono, via www.associazione-venus.it)


1942
Lavori di modifica dell’armamento: le due mitragliere singole Vickers-Terni 1917 da 40/39 mm vengono sostituite con quattro, più moderne, Scotti-Isotta Fraschini 1939 da 20/70 mm. Vengono inoltre aggiunti due ulteriori scaricabombe di profondità ai due già esistenti.

Il Sella fotografato al Pireo il 18 agosto 1942 (g.c. STORIA militare)

20 ottobre 1942
Parte da Samo insieme al Crispi, alle 14.24, per scortare a Rodi il posamine ausiliario Lero. Alle 14.30 (diverso fuso orario) uno dei cacciatorpediniere, mentre procede su rotta 250°, viene avvistato ad otto miglia per 125°, in posizione 36°26' N e 27°54' E dal sommergibile britannico Thrasher (tenente di vascello H. S. Mackenzie), che dieci minuti dopo avvista anche il resto del convoglio (formato dal Lero con uno dei cacciatorpediniere a proravia e l’altro sula dritta). Alle 15.30 il convoglio accosta, giungendo così a 3200 metri dal sommergibile, che alle 15.35 può lanciare quattro siluri contro il Lero. La nave viene colpita da due delle armi ed affonda in 17 minuti sei miglia a sudovest di Simi, con quattro vittime; tutti i naufraghi vengono recuperati da uno dei cacciatorpediniere, mentre l’altro reagisce con il lancio di 18 bombe di profondità, nessuna delle quali esplode abbastanza vicina al Thrasher da danneggiarlo. Alle 16.30 anche tre MAS si uniscono alla caccia, ma alle 16.45 Sella e Crispi si allontanano verso nordovest, così che anche il Thrasher si ritira verso ovest.
25 ottobre 1942
Alle 23.04 la nave cisterna Arca ed il Sella, che la sta scortando da Instanbul a Lero, vengono avvistati nel punto 38°48’ N e 25°46’ E (al largo di Chio), ad otto miglia per 285°, dal sommergibile britannico Taku (TV Arthur John Wright Pitt), che alle 23.28 lancia quattro siluri da 3660 metri contro l’Arca. Le armi mancano il bersaglio, ed il Sella risponde gettando undici cariche di profondità, a partire dalle 23.31, ma nessuna di esse scoppia vicina al sommergibile.
26 ottobre 1942
Alle 7.40, nel punto 38°04’ N e 25°27’ E (o 38°48’ N e 25°46’ E), il Taku avvista di nuovo il Sella, ed alle 7.50 avvista anche l’Arca, più vicina alla costa. Alle 8.04 il battello lancia quattro siluri da 3660 metri, per poi immergersi a 21 metri; questa volta l’Arca viene colpita, ed inizia ad appruarsi. L’equipaggio l’abbandona sulle scialuppe, mentre il Sella si allontana verso sud, ed alle 8.14 il Taku torna a quota periscopica e si prepara a lanciare un altro siluro per finire, se necessario, il bersaglio, poi scende a 15 metri. L’Arca affonda poco dopo nove miglia a sud di Chio, ed il sommergibile, dopo averlo constatato tornando a quota periscopica alle 8.39, si allontana verso est alle 8.46 a seguito dell’arrivo di un aereo. Tutti i 25 membri dell’equipaggio dell’Arca vengono tratti in salvo.



Altre due immagini del Sella al Pireo, nell’estate 1942 (foto Aldo Fraccaroli, coll. Domenico Iacono, via www.associazione-venus.it

 

7 novembre 1942
Il Sella, insieme al cacciatorpediniere tedesco Hermes ed ad un cacciasommergibili, scorta due navi cisterna a Siro, proseguendo poi come unica scorta delle due petroliere fino a Lero.
7 marzo 1943
Posa un campo minato antisbarco, con 25 ordigni, nelle acque di Rodi.
8 marzo 1943
Posa un secondo sbarramento antisbarco di 25 mine al largo di Rodi.
10 marzo 1943
Posa un terzo sbarramento antisbarco, di 20 mine, presso Rodi.
Successivamente il Sella viene inviato in Italia, adibito a compiti addestrativi in Mare Adriatico.
22 aprile 1943
Sella, Castelfidardo ed il cacciatorpediniere Euro scortano dal Pireo a Rodi le motonavi Città di Savona e Donizetti ed i piroscafi Re Alessandro ed Ardenna.
24 aprile 1943
Sella, Euro e Castelfidardo scortano gli stessi quattro trasporti sulla rotta di ritorno da Rodi al Pireo.
Giugno 1943
Inviato a Venezia per lavori.

Il Sella fotografato da bordo di un MAS agli inizi del 1943 (Coll. Maurizio Brescia, via www.associazione-venus.it)

Armistizio e perdita

L’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, l’8 settembre 1943, sorprese il Sella a Venezia, al molo dei Giardini, dove l’anziano cacciatorpediniere aveva da poco terminato alcuni lavori – iniziati a metà giugno – ai vecchi e logorati motori, il cui funzionamento era ormai divenuto mediocre dopo tanti anni di servizio e più di cento missioni di guerra nelle acque dell’Egeo.
All’atto dell’armistizio, il Sella si trovava ormeggiato nella darsena grande dell’Arsenale di Venezia, dove avrebbe dovuto effettuare i collaudi delle macchine al termine dei lunghi lavori di revisione che le avevano riguardate. Dopo l’iniziale euforia per quella che si credeva essere la “fine della guerra”, subentrò la giustificata preoccupazione per la consistente presenza in zona delle forze tedesche, ora divenute nemiche.
Nei concitati momenti dell’armistizio, l’ammiraglio comandante della base navale di Venezia, Ferdinando di Savoia-Genova, venne rimpiazzato dall’ammiraglio Emilio Brenta per poter raggiungere il proprio cugino e sovrano Vittorio Emanuele III in Puglia, ove questi si apprestava a fuggire. Savoia-Genova pensava di raggiungere la sua destinazione (Brindisi o Bari) proprio con il Sella, che risultava pronto a partire entro breve, tanto che l’ammiraglio e duca di Genova vi aveva già fatto imbarcare i propri bagagli.
Ma le forze tedesche circondarono rapidamente Venezia, impedendo ogni accesso da terra, e l’11 settembre il Sella ricevette l’ordine di raggiungere Taranto (già il mattino del 9 settembre l’ammiraglio Brenta aveva ordinato a tutte le navi in grado di prendere il mare presenti a Venezia di partire per raggiungere i porti rimasti in mano italiana o sotto controllo alleato nell’Italia meridionale): Savoia-Genova dovette perciò partire prima del cacciatorpediniere, volando in Puglia con un idrovolante CANT Z. 506.
Durante le prove, sul cacciatorpediniere avevano avuto luogo numerosi incidenti, forse causati volontariamente da membri dell’equipaggio stesso; equipaggio che poi, essendosi dovuto ricomporre rapidamente ed in maniera imprevista a seguito dell’armistizio, risultava incompleto, ridotto a poche decine di uomini.
Alcuni membri dell’equipaggio, che si trovavano in licenza perché la nave era ferma a Venezia per lavori, erano rientrati precipitosamente a bordo dopo l’armistizio: tra questi anche il sergente specialista in direzione del tiro Alessandro Coppola, che, trovandosi in licenza nel paese natale, dopo aver sentito alla radio il proclama dell’armistizio aveva deciso subito di raggiungere la sua nave, nonostante le preghiere di genitori e degli amici – che credevano che la guerra fosse finita – di restare, ed anche di una zia incontrata per strada, in paese, che lo aveva implorato di cambiare idea. Nonostante la difficile situazione delle ferrovie, il sergente Coppola era riuscito a giungere a Venezia ed a salire sul Sella in tempo per la partenza.
Altri membri dell’equipaggio, come l’elettricista Vincentino (“Tino”) Maddalon di Arsiè, che era imbarcato sul Sella dal marzo 1941, non tornavano invece a casa da 30 o più mesi, avendo trascorso anche i periodi di licenza in porti greci.
Nonostante il ritorno di parte degli uomini in licenza, sul Sella, il cui equipaggio risultava comunque incompleto in diversi ruoli, si erano comunque dovuti imbarcare uomini provenienti da altre navi, e delle specialità più diverse, per riuscire ad avere un equipaggio sufficiente a prendere il mare.
Nonostante il suo precario stato (la caldaia numero 2 ancora non funzionava adeguatamente, non garantendo velocità superiori ai 15 nodi, e si era guastata anche la dinamo, che tuttavia si era riusciti a riparare prima di partire), il Sella, al comando del capitano di corvetta Corrado Cini, salpò da Venezia alle 15.30 dell’11 settembre 1943 per raggiungere Brindisi (o Taranto). A bordo, oltre all’equipaggio, c’erano anche almeno duecento tra soldati intenzionati a sfuggire alla cattura, sbandati e profughi civili, che scappavano da Venezia ormai prossima a cadere in mano alle forze tedesche: quelli che era stato possibile lasciar salire senza sovraccaricare eccessivamente la nave. Molti di questi “passeggeri” erano originari dell’Italia meridionale, e speravano di riuscire a tornare alle loro case, od almeno di avvicinarvisi, con quel viaggio.
Soldati e profughi erano sistemati alla meglio, dove c’era spazio,  nei corridoi, sulla tuga, in coperta. L’equipaggio, comunque, era ai posti di combattimento, le vedette all’erta; ci si aspettava anche un possibile attacco da parte di Stukas tedeschi, coi quali la nave aveva già a avuto a che fare due anni e mezzo prima, in Egeo.
Alle 16 il Sella imboccò la rotta di sicurezza, accelerando, ma mezz’ora dopo la caldaia numero 2 andò in avaria e dovette essere spenta, obbligando la nave a ridurre la velocità a soli 14 nodi, senza zigzagare. Alle 16.45, ad una dozzina di miglia da Venezia, il cacciatorpediniere avvistò in rapida successione una motonave carica di militari e civili e poi il piccolo e vecchio piroscafo Pontinia in uscita da Venezia, che procedeva lentissimo, alto sull’acqua, apparentemente scarico, sulla sinistra del Sella ed intento, perché troppo scartato a sinistra, ad accostare a dritta a 90° per tornare sulla rotta di sicurezza.
Ad insaputa del Sella, questi era stato appena fermato e catturato dalle motosiluranti tedesche S 54 e S 61, in navigazione da Taranto a Venezia al comando del tenente di vascello Klaus Schmidt (imbarcato sull’S 54): le due piccole unità, che avevano anch’esse avarie ai motori, avevano egualmente seminato morte e distruzione lungo la loro rotta – dapprima gettando davanti a Taranto mine sui cui sarebbero poi saltati il posamine britannico Abdiel, il rimorchiatore italiano Sperone ed il dragamine britannico MMS 70, poi catturando ed affondando il piccolo dragamine ausiliario Vulcania, quindi silurando ed affondando la cannoniera Aurora ed infine catturando la motonave Leopardi ed il Pontinia stesso – ed ora si apprestavano a sferrare un nuovo colpo. S 54 ed S 61, mentre si stavano avvicinando al Pontinia (che avevano incontrato 25 miglia a sudest di Venezia), avevano avvistato e riconosciuto il Sella in avvicinamento. Il tenente di vascello Schmidt, considerate le malandate condizioni dei motori delle sue motosiluranti, aveva concluso che uno scontro “a viso aperto” con il cacciatorpediniere sarebbe stato fatale (non potendo sapere che anche il Sella versava in analoghe condizioni): solo attaccando a sorpresa e da poca distanza avrebbe potuto eliminare quella minaccia. L’S 54 si era quindi avvicinata al Pontinia, e Schmidt ne aveva costretto l’equipaggio a farlo salire a bordo, insieme a due ufficiali. Ormai sotto controllo tedesco, il piroscafo aveva manovrato per avvicinarsi al Sella, mantenendo l’S 54 nascosta dietro la murata opposta (quella sinistra), mentre il cacciatorpediniere transitava a bassa velocità a soli 400 metri dal piroscafo. (Secondo una versione, Schmidt avrebbe anche fermato due pescherecci e requisito le loro reti da pesca per mimetizzare il ponte delle motosiluranti, ammainato la bandiera di combattimento – issandola poi di nuovo al momento dell’attacco – ed ordinato ai suoi uomini di sparare su chi avesse tentato di gridare o fare segnali per avvertire il cacciatorpediniere). Sul Sella, dove l’attenzione di comandante ed equipaggio era concentrata sull’avaria di macchina, non si sospettava di nulla, rassicurati anzi dalla presenza di mercantili italiani. Alle 17 il cacciatorpediniere era a venti miglia dall’imboccatura del Passo di Lido, e proseguendo sulla rotta di sicurezza defilò a proravia del Pontinia a 400 metri.
La distanza era ormai abbastanza ridotta per lanciare, quindi il tenente di vascello Schmidt tornò sulla propria motosilurante (portando con sé due ostaggi, tra cui il sottotenente di vascello Francesco Toscano, per dissuadere chiunque dal tentare di avvertire il Sella del pericolo), mise i motori avanti tutta e passò all’attacco.
Alle 17.45, improvvisamente, l’S 54 apparve da dietro la murata del Pontinia, cogliendo il Sella di sorpresa e lanciandogli subito contro due siluri – gli ultimi rimasti – da appena un’ottantina di metri: una vedetta del Sella gridò “Siluri sulla dritta”, la nave italiana ebbe a malapena il tempo di aprire all’istante il fuoco con tutte le mitragliere di sinistra, su ordine del comandante Cini e sotto la direzione del comandante in seconda – tenente di vascello Gustavo Gianese, genovese –, e di iniziare una manovra evasiva, che fallì per l’incatastamento del timone, provocato dall’avaria alla caldaia, che impediva alle macchine di rispondere alla manovra. Sulla plancia del Sella, il sottocapo meccanico navale Bruno Ferdani, noto tra l’equipaggio come “il postino” perché incaricato della distribuzione della posta, vide l’S 54 sbucare d’improvviso da dietro il Pontinia, e sentì il comandante Cini ordinare subito “Avanti tutta!”. Nel disperato tentativo di virare, si gettarono insieme sul timone il timoniere, il comandante Cini (che aveva ordinato anche “Tutta la barra a dritta”) e l’ufficiale di rotta, il giovane sottotenente di vascello triestino Giuseppe D’Henry, ma non servì a niente. Il direttore di macchina, capitano del Genio Navale Guido Cervone, corse in sala caldaie per sollecitare a riparare l’avaria che impediva alla nave di manovrare.
Era troppo tardi: trenta secondi dopo il lancio, i due siluri colpirono entrambi il Sella, uno sotto la plancia ed uno in corrispondenza del locale caldaia numero 1 (sotto il fumaiolo prodiero), facendo scoppiare quella caldaia. La nave si spezzò in due: la prua affondò quasi subito impennandosi verso il cielo, la poppa proseguì per altri cento o duecento metri a causa dell’abbrivio, poi si abbatté sul lato sinistro ed affondò a sua volta, con le eliche che ancora giravano. Tutto ciò era durato appena un minuto. La tragedia si era consumata undici miglia ad est-sud-est del Passo di Lido.
Il sottotenente di vascello Francesco Toscano, prigioniero su una delle motosiluranti e sorvegliato a vista, aveva assistito impotente all’attacco, venendo di poco mancato da una raffica di mitragliera del Sella stesso. Quando il Sella fu colpito ed iniziò ad affondare rapidamente, l’equipaggio della motosilurante esplose in grida di felicità, ed alcuni uomini, nella loro euforia, spararono sulla nave agonizzante con pistole e fucili; il comandante Schmidt riportò in fretta l’ordine, ordinando ai suoi uomini di mettersi sull’attenti e di tributare l’onore delle armi al Sella in affondamento.
Per il sottocapo Ferdani del Sella, l’“avanti tutta” del comandante Cini fu seguito dall’esplosione dei siluri. Il ponte di comando fu lanciato in aria ad una trentina di metri di distanza, mentre il fumaiolo prodiero crollava. Catapultato in mare, Ferdani riemerse in un mare cosparso di nafta, in mezzo alle grida di feriti e naufraghi, senza nemmeno aver avuto il tempo per comprendere appieno quanto fosse accaduto.
Il guardiamarina ventunenne Duilio Predonzani, direttore del tiro autonomo di poppa, che si trovava a poppavia del secondo fumaiolo, vide una fiammata immensa innalzarsi davanti a sé e si coprì la faccia con il braccio destro, che fu fratturato e ferito in undici punti, poi fu travolto dalla colonna d’acqua sollevata dall’esplosione, che stava ora ricadendo. Una scheggia gli amputò la punta del naso, un’altra gli trapassò l’omero. Predonzani credette di annegare, non riusciva a respirare né a vedere, l’acqua sbatteva il suo braccio ferito sul ponte. Predonzani pensò a sua madre, poi l’acqua finì di rifluire in mare, e si ritrovò in mezzo ad un insolito silenzio: tutto ciò che era stato intorno a lui era andato distrutto, ovunque c’erano solo squarci e lamiere contorte. Il troncone poppiero aveva già assunto un forte sbandamento sulla dritta, l’acqua era già giunta al livello della coperta, non restava che entrare in acqua come in una vasca, senza neanche bisogno di tuffarsi.
Il comandante in seconda, Gustavo Gianese, rimasto gravemente ferito, si sforzò ancora per aiutare gli altri a mettersi in salvo. Recuperato dal mare, sarebbe morto pochi giorni dopo a Venezia. Alla sua memoria fu conferita la Medaglia d’argento al Valor Militare. Ricevettero la Medaglia di bronzo al Valor Militare a vivente, per la loro condotta nell’azione, anche il comandante Cini ed il direttore di macchina Cervone (entrambi rimasti feriti), ed alla memoria il sottotenente di vascello Giuseppe D’Henry, scomparso nell’affondamento, ed il tenente Fulvio Mastracchio. I naufraghi annaspavano nel mare tra vaste chiazze di nafta – quella che non era in fiamme ostacolava i movimenti e faceva annegare più in fretta – e rottami galleggianti.
Il guardiamarina Predonzani, che stava perdendo molto sangue e cercava di nuotare con un braccio solo, raggiunse una zattera carica di marinai, che lo issarono a bordo e lo posarono sul fondo, accanto ad un altro ferito grave. I marinai tentarono poi di avvicinarsi al Pontinia, che si era fermato, ma erano in preda allo shock e, remando tutti insieme – chi con i remi e chi con le sole mani – facevano girare in tondo la zattera, finché non fu lo stesso Predonzani ad ordinare di smettere.
Le due motosiluranti recuperarono una cinquantina di sopravvissuti, poi, poco dopo, si allontanarono rapidamente dal luogo dell’attacco, lasciando il Pontinia – sotto il controllo di un equipaggio di preda tedesco – e la motonave Leopardi (pure catturata dalle motosiluranti e lasciata sul posto, insieme al Pontinia, a recuperare i naufraghi) con il compito di completare il salvataggio.
Tino Maddalon, mentre era in acqua, vide i militari tedeschi ammainare la bandiera italiana sul Pontinia – lasciata lì per non destare sospetti durante l’attacco – ed issare quella tedesca. Maddalon nuotò fin sottobordo al piroscafo e si appese ad una corda gettata lungo la murata, mentre le onde lo sbattevano contro lo scafo. Una volta a bordo del Pontinia, lui ed altri naufraghi furono fatti scendere nella stiva.
La zattera del guardiamarina Predonzani giunse sottobordo al Pontinia, ed i marinai si arrampicarono a bordo lungo le cime calate lungo le murate; usando quelle cime, fu issato a bordo anche un ferito alle gambe. Quando fu il turno di Predonzani, il comandante del drappello di preda tedesco, mitra alla mano, ordinò al comandante del Pontinia di interrompere il recupero e dirigere su Venezia, ma il maresciallo coneglianese Giovanni Braido fece in tempo a lanciare una cima provvista di gassa terminale, che permise al Predonzani di aggrapparvisi ed essere issato a bordo.
Alcuni altri naufraghi furono soccorsi più tardi da pescherecci italiani.
Il Pontinia arrivò a Venezia, alla Riva dell’Impero (che di lì a pochi anni avrebbe mutato nome in Riva dei Sette Martiri per commemorare un eccidio lì commesso dai nazisti), dove furono sbarcati i naufraghi, neri di nafta, molti feriti. Tra i superstiti vi fu anche il direttore di macchina Cervone, recuperato dopo essere rimasto a lungo in mare con una gamba fratturata. All’arrivo a Venezia, Tino Maddalon ed altri uomini del Sella saltarono in mare per scappare poco prima che la nave si ormeggiasse alla banchina, rischiando di essere schiacciati. Maddalon riuscì poi, in due giorni, a tornare a piedi al paese d’origine, senza più nulla.


Il bilancio finale fu pesantissimo: erano morti 27 membri dell’equipaggio del Sella (4 ufficiali e 23 sottufficiali e marinai; 28 uomini per altra fonte, ma dai volumi dell’USMM risultano invece 21 nominativi di uomini deceduto in seguito all’affondamento del cacciatorpediniere) e non meno di 170 dei “passeggeri”, forse anche più di 200 o di 300, ma il numero esatto rimane sconosciuto, dal momento che non erano stati contati al momento dell’imbarco (il comandante Cini intendeva redigerne una lista completa durante la navigazione). Per alcune stime i morti furono in tutto 270; secondo il giornalista e subacqueo Lino Pellegrini (che sul Sella era stato imbarcato come corrispondente di guerra in Egeo durante l’estate del 1940), vennero successivamente recuperate 240 salme.
I sopravvissuti, in tutto, non furono che 93 (anche se l’ammiraglio Carlo Gottardi, in un saggio del Bollettino d’Archivio dell’USMM del 1988, asserì che i superstiti sbarcati alla banchina del Bacino di San Marco fossero più di 200, subito soccorsi dalla popolazione del sestiere di Castello e portati, con mezzi di fortuna o direttamente a braccia, a Sant’Anna, dove ricevettero le prime cure).
I feriti, tra cui mutilati ed ustionati, furono divisi tra diversi ospedali sulla terraferma attorno a Venezia; molti morirono per le ferite nei giorni seguenti. Il comandante Cini (recuperato dal Pontinia), gravemente ferito al ginocchio, dovette subire l’amputazione di una gamba, così come un altro ufficiale, il guardiamarina Piazza, cui furono amputate entrambe. Non fu invece tra i sopravvissuti il sergente Alessandro Coppola, che da Castellammare di Stabia era accorso sino a Venezia, dopo l’armistizio, per seguire le sorti della sua nave. Fino alla fine.
Alcuni naufraghi riuscirono poi a sfuggire e furono nascosti dalla popolazione veneziana per sottrarli alla cattura da parte delle forze tedesche; alcuni di loro andarono poi ad unirsi alle formazioni partigiane della zona. Il comandante Cini, curato a Venezia, venne poi internato in Germania perché giudicato “colpevole” di aver aperto il fuoco su una nave tedesca. A lui la Brigata Nera «Cavallin» di Treviso requisì persino l’automobile, definendolo per giunta erroneamente, in un documento, “ex ammiraglio clandestinamente espatriato”.

Vittime tra l’equipaggio del Sella:

Cesare Ciabatti, marinaio fuochista, disperso
Salvatore Cienzo, marinaio nocchiere, disperso
Alessandro Coppola, sergente S. D. T., disperso
Amedeo Criscuolo, marinaio, disperso
Giuseppe D’Henry, sottotenente di vascello, deceduto
Domenico Dalino, capo meccanico di terza classe, disperso
Simone Damonte, marinaio fuochista, disperso
Sebastiano De Martino, marinaio cannoniere, disperso
Giacomo Devecchi, sottocapo S. D. T., disperso
Gustavo Gianese, tenente di vascello, deceduto in territorio metropolitano il 19.9.1943
Sebastiano Gullino, sottocapo radiotelegrafista, deceduto
Fulvio Mastracchio, tenente di vascello, disperso
Giuseppe Matarese, aspirante (Genio Navale), disperso
Cesare Mora, sottocapo meccanico, disperso
Ottavio Pione, marinaio motorista, disperso
Gennaro Raia, marinaio, disperso
Lionello Re, marinaio, deceduto il 12.9.1943 in territorio metropolitano
Luigi Serra, marinaio nocchiere, disperso
Riziero Simeone, sottocapo cannoniere, disperso
Paolo Troncossi, sottocapo segnalatore, disperso
Natale Vannozzi, marinaio fuochista, disperso


La motivazione della Medaglia di bronzo al Valor Militare conferita al capitano del Genio Navale Guido Cervone:

“In combattimento ravvicinato contro motosilurante tedesca sbucata improvvisamente dal ridosso di un piroscafo, accortosi che contro la propria Nave erano stati lanciati due siluri, occorreva coraggiosamente in caldaia per sollecitare la riparazione dl una avaria che impediva la manovrabilità della nave. Rimasto ferito in seguito alla scoppio di uno del siluri, manteneva sereno contegno esempio di alto senso del dovere e di noncuranza del pericolo”.


Il riposo del Quintino Sella non sarebbe durato a lungo. Risale al 1956 il primo tentativo di recupero del relitto, da parte della società veneziana Navalcost, appartenente all’ingegner Arminio Müller: questi si era aggiudicato l’asta tenuta dalla Direzione Generale delle Costruzioni Navali e Meccaniche del Ministero della Marina nel dicembre 1949, al prezzo di 1.200.000 lire. Il relitto era già stato individuato, in maniera casuale, quando nel giugno 1949 le reti di un peschereccio chioggiotto vi si erano impigliate, ed il capo palombaro Nello del Grande vi si era immerso e ne aveva confermato l’identità; Müller intendeva riportare a galla i due tronconi del Sella (imbragandoli in un’imbragatura collegata a quattro grossi cilindri di spinta che, riempiti d’aria compressa, li avrebbero riportati in superficie) e rimorchiarli in un cantiere appositamente predisposto dalla Navalcost alla Giudecca (Sacca Fisola), dove sarebbero stati alati e demoliti. Il fatto che la nave fosse spezzata in due avrebbe facilitato il recupero, dato che ogni troncone avrebbe avuto un peso minore rispetto alla nave intera.
Non essendo un uomo di mare, l’ingegnere si associò con il marinaio ed aviatore veneziano Bruno Rocca, che aveva già partecipato alle ricerche del relitto dell’incrociatore corazzato Amalfi in Alto Adriatico (1952) ed a recuperi di unità alleate affondate sulla costa normanna. I preparativi dei lavori risvegliarono anche l’interesse della gente, che voleva sapere quante fossero le persone perite nell’affondamento del cacciatorpediniere (tanto che il Gazzettino del 10 gennaio 1956 titolò “Quanti uomini del Sud dormono nel relitto del Sella?”).
Per prima cosa la Navalcost compì immersioni esplorative per individuare la posizione più adeguata, sul fondale di 23 metri, per sistemare i cilindri di spinta, e per scavare nel fondale stesso, al di sotto dello scafo del Sella, dei fori in cui sarebbero stati fatti passare i cavi d’acciaio in modo da imbragare il relitto. Tali lavori dovettero essere più volte interrotti, ogni volta che i palombari trovavano resti di uniformi ed ossa umane.
Müller richiese poi alla Marina italiana (Marinarsen) quattro cilindri di spinta che potessero sollevare 250 tonnellate ciascuno, ma i cilindri, in giacenza a Taranto, gli furono consegnati solo nell’autunno del 1955, proprio mentre si finiva di praticare i fori per il passaggio dei cavi d’acciaio. Nonostante l’inverno non fosse lontano, il proprietario della Navalcost decise di procedere con i lavori, proponendosi di affondare i cilindri sul relitto stesso nei giorni di maltempo, e di usarli in quelli di tempo favorevole.
Con l’aiuto di due rimorchiatori militari dell’Arsenale di Venezia, Müller e Rocca (che dirigevano le operazioni da un trabaccolo, che ospitava anche i palombari) fecero posizionare ed affondare i quattro cilindri sul fondale attorno al troncone poppiero del Sella, nelle posizioni prescelte. Si attese poi l’arrivo della primavera per riprendere i lavori.
Giunta la primavera del 1956, la Navalcost riprese le operazioni di recupero del relitto, ma quando i palombari iniziarono a pompare aria nei cilindri di spinta, per risollevarli e con essi la nave, dai cilindri iniziò ad uscire aria. Fu necessario interrompere i lavori, recuperare i cilindri e riportarli a Marinarsen dove furono riparati; dalle perizie eseguite risultò che i mutamenti di pressione causati dalle onde delle mareggiate invernali, durante la lunga permanenza sul fondale, avevano provocato la deformazione di alcuni componenti dei cilindri, facendo loro perdere la tenuta stagna. Müller aprì una vertenza con Marinarsen, ritenendo che i cilindri fossero stati difettosi sin dall’inizio (contrariamente a quanto dicevano i risultati delle perizie; il contenzioso, in cui Müller chiedeva un risarcimento, sarebbe andato avanti anche dopo la definitiva rinuncia al recupero), poi decise di ripiegare su palloni pneumatici, da lui stesso progettati, al posto dei cilindri di spinta.
A titolo di esperimento, si decise di recuperare con un pallone pneumatico la caldaia prodiera, del peso di 50 tonnellate: questa, separata dal suo basamento, venne legata ad uno di tali palloni e, il 19 ottobre 1956, riportata a galla. La caldaia venne poi rimorchiata in porto e poi trasportata nel cantiere della Navalcost.
Dopo aver ordinato la produzione dei teli gommati necessari a preparare abbastanza palloni da poter risollevare l’intero troncone poppiero, ed in attesa della loro realizzazione, Müller e Rocca decisero di usare l’unico pallone pneumatico disponibile per recuperare la plancia, che giaceva nei pressi dello scafo ma da essa interamente separata dalle esplosioni dei siluri che l’avevano strappata dalla sua sede nel 1943. Anche durante questi lavori furono trovati indumenti ed ossa umane sparse, che furono recuperate dai palombari e riposte in cassette zincate. Dopo aver imbragato la plancia, si procedette a gonfiare il pallone, che iniziò a sollevare la plancia, ma questo si era lacerato durante l’agganciamento, ed iniziò a perdere aria. Plancia e pallone presero a sprofondare di nuovo, sino a tornare sul fondale. La plancia, capovolta, si adagiò vicino al troncone poppiero.
Müller, essendo ormai i lavori divenuti poco convenienti, dovette ridurre il lavoro della propria impresa a saltuarie immersioni per il recupero di piccoli oggetti, che alla fine del 1956 cessarono del tutto a seguito di un tragico incidente: un palombaro, caduto in mare dal trabaccolo, senza casco, durante la svestizione, annegò. La Navalcost dovette cessare definitivamente i propri lavori sul Sella, dopo aver recuperato solo una caldaia, il cofano portabandiera e qualche oggetto della mensa ufficiale, oltre ad un imprecisato numero di resti umani.
La nave cadde poi nel dimenticatoio per altri quindici anni.

Il relitto del Sella, ancora in buone condizioni, venne di nuovo localizzato nel 1971. Furono il subacqueo Michele Da Campo, direttore del Club Subacqueo San Marco, ed il geologo marinio del CNR Antonio Stefanon (che aveva ricevuto dal subacqueo veneto Danilo Pellegrini un documento – da questi reperito dal maggiore Renato Azzarini della Capitaneria di Porto di Venezia – compilato nel 1953 da Marinarsen ed indicante la posizione dei relitti affondati nella giurisdizione di Venezia), intenti in una mappatura degli affioramenti rocciosi, ad individuare a 10,2 miglia per 141° dal radiofaro del Lido di Venezia, il troncone prodiero; una settimana di ricerche portò anche a ritrovare il resto della nave.
Questa volta furono i subacquei Danilo Pellegrini e Roberto Rotelli (quest’ultimo, lavorando in proprio, si era in precedenza fatto comunicare dall’ingegner Müller la posizione del relitto e l’aveva poi cercato con il proprio peschereccio, ma senza successo), messisi in società, ad ottenere la concessione per recuperare il relitto dalla Capitaneria di Porto, valida dal 28 settembre al 30 novembre 1973 e rinnovabile. Il 24 settembre 1973 Pellegrini e Rotelli si erano accordati con Müller (la cui Navalcost era intanto entrata in liquidazione) per recuperare e vendere le parti di maggior pregio del relitto; l’ormai anziano ingegnere veneziano avrebbe ricevuto una percentuale sui guadagni.
I due tronconi erano ancora integri, e l’idea era di riportarli a galla, tanto che vennero ordinati dei cilindri di spinta che sarebbero serviti a sollevare il relitto. Le operazioni preliminari (condotte da Pellegrini e Rotelli con l’appoggio del peschereccio G. Battiston e di alcune piccole imbarcazioni veloci), con l’utilizzo di piccole cariche esplosive mirate (di non più di 3 hg ciascuna), portarono alla rimozione di tutte le parti asportabili facilmente identificabili come appartenenti al Sella (timoniera principale compresa la ruota del timone con il nome della nave, timoniera ausiliaria, telegrafi e ripetitori di macchina, chiesuola della bussola, sirena, fregi esistenti sulla poppa; dagli interni della nave, ancora ben conservati, vasellame della mensa ufficiali ed altro materiale, senza però mai trovare resti umani o piastrine identificative), parte delle quali vennero poi donate da Pellegrini al Museo Storico Navale di Venezia ed al Museo Tecnico Navale di La Spezia. Furono poi asportate le tubature di rame e le valvole di bronzo più facilmente recuperabili (quelle presenti in coperta od accessibili dagli squarci dei siluri), e poi, usando cariche esplosive, le eliche furono separate dagli assi (senza però essere recuperate), e gli ultimi otto metri di poppa vennero separati dal resto dello scafo per facilitarne la rimozione. Furono aperti un varco in sala macchine, vicino al condensatore di sinistra (recuperabile con cilindri), ed uno che permise di accedere al deposito munizioni poppiero e di recuperare da esso i proiettili da 120 mm, dopo averne rimosso le cariche di lancio, che furono lasciate sul fondale accanto al relitto.
Terminati questi primi lavori, essi vennero sospesi per l’inverno, in attesa del rinnovo della concessione da parte della Capitaneria di Porto: ma questa, il 19 febbraio 1974, rispose che la concessione non poteva più essere data, perché, essendo la Navalcost inadempiente dal 1960, il contratto da essa stipulato il 23 dicembre 1949 non era più valido (benché questo avrebbe dovuto impedire anche la prima concessione, che invece era stata data). Nel settembre 1974 Pellegrini chiese alla Direzione Navale delle Costruzioni Navali e Meccaniche del Ministero della Difesa di stipulare un nuovo contratto di vendita del relitto, ma non ebbe risposta.

In quel momento il relitto era ancora in buono stato, ma era stato deciso l’intervento del Nucleo Servizio Difesa Antimezzi Insidiosi (SDAI) del Dipartimento Militare Marittimo di Ancona allo scopo di bonificare il relitto dal munizionamento ancora presente. Nel luglio 1974 mucchi di proiettili, bombe di profondità e le testate dei siluri vennero fatti brillare sul fondale accanto alle murate del Sella, e le esplosioni, investendo il relitto, fecero crollare il complesso poppiero da 120/45 (che si inclinò di 45°, ostruendo e rendendo pericoloso l’accesso ai locali poppieri) e l’estrema poppa, bloccando anche le eliche, già separate dai relativi assi durante i precedenti lavori. Le detonazioni fecero inoltre staccare le incrostazioni calcaree che avevano contribuito a preservare la nave, ed ebbe inizio un processo di corrosione galvanica che avrebbe portato ad un rapido peggioramento dello stato di conservazione del Sella, fino a ridurlo nelle condizioni attuali.
Per questo, e per l’emergere di nuove commesse per la Lavori Marittimi Rotelli & Pellegrini (ora impegnata nell’allestimento e manutenzione degli ormeggi allestiti per le superpetroliere finite in disarmo nella laguna veneta dopo la riapertura del canale di Suez) oltre che per il crollo del prezzo dei rottami ferrosi, il Sella non fu mai più recuperato.

Nel settembre 1988, un piccolo corteo di navi, tra cui i dragamine Sandalo ed Ebano ed il rimorchiatore Saturno, rese gli onori ai caduti del Sella, con un picchetto d’onore, il suono del silenzio fuori ordinanza ed il lancio in mare di due corone di alloro, benedette da don Amedeo Buoso, cappellano del Collegio Navale “Morosini”. Presenziarono alla cerimonia, oltre ad autorità civili (il prefetto Antonio Trotta), militari (l’ammiraglio Giuseppe Laccheri, comandante di Marina Venezia, ed il tenente colonnello dei “Lagunari” Leonardo Mongelli) e religiose ed a giornalisti, anche 25 superstiti, ospitati su una motonave messa a disposizione dall’ACTV, ed i subacquei autori del ritrovamento del relitto. Uno di questi ultimi, anzi, si vide chiedere da uno degli anziani superstiti, con tanto di mappa di un corridoio del Sella rapidamente disegnata, se, durante l’immersione, sarebbe potuto passare dalla sua cabina e guardare sotto la seconda cuccetta a destra per recuperare la sua valigia di pelle, che conteneva l’unica foto da lui avuta della sua ragazza del tempo.
Ancora non era finita, tuttavia, l’odissea del relitto: nel 1995, infatti, si decise di far brillare il deposito munizioni rimasto inesploso. Nello stesso anno venne anche recuperato dal Gruppo Ricerche Subacquee Argo (che dal 1992 faceva immersioni e filmati sul relitto in cooperazione con la Soprintendenza Archeologica del Veneto) un portolano, in sorprendente stato di conservazione, donato poi al Museo Storico Navale di Venezia. Tra i reperti ivi esposti, compresi quelli recuperati nel 1972, vi sono il timone, la chiesuola della bussola (entrambi recuperati da Pellegrini e Rotelli nel 1973 e donati da Danilo Pellegrini al museo nell’ottobre 1989), la bandiera ed un pezzo di scafo con le lettere del nome Quintino Sella (recuperato dal nucleo SDAI nel 1974 durante i lavori di bonifica).

Il relitto del Sella si trova oggi a 24-25 metri di profondità (la profondità minima è 17 metri, quella massima 25), spezzato in due tronconi all’altezza della plancia, ad una decina di miglia dalle bocche di Lido (10,5 miglia dal faro di Alberoni-San Pietro in Volta), in posizione 45° 17’,27 N e 012° 34’,58 E (o 45°17’15” N e 12°34’45” E; a dieci miglia dal passo del Lido, sul parallelo di Pellestrina, ed ad altrettanta distanza dalla bocca del porto di Malamocco). La sezione prodiera (lunga 27 metri), abbastanza integra e riconoscibile, è inclinata di 45° a sinistra; si riconoscono l’ancora (che giace sotto il relitto), un verricello salpancore, una bitta, il complesso binato prodiero da 120/45 con le canne ruotate verso il basso. Il troncone centrale-poppiero (lungo 70 metri), che giace ad un centinaio di metri dalla prua e più verso il largo, è invece pesantemente danneggiato, per quanto si possano ancora riconoscere due caldaie (una delle quali esplosa per effetto del siluramento), il complesso binato da 120/45 poppiero, un impianto lanciasiluri binato, una mitragliera Oerlikon da 20 mm (vicino alla murata sinistra) ed anche (sotto la murata dritta) i cavi che lì furono passati per agganciarli ai cilindri di spinta durante i tentativi di recupero. La plancia, semisepolta nella sabbia, giace nei pressi della poppa. Nei resti della nave, gremiti di pesci, sono impigliate numerose reti da pesca.
Nel 2009 un’ordinanza ha vietato le immersioni sul relitto, adducendo a motivo la sua mancata bonifica (nonostante i brillamenti eseguiti in passato).

Il Sella alla fonda (da www.marina.difesa.it via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net)

Si ringrazia Danilo Pellegrini.